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Questo articolo è stato pubblicato il 05 dicembre 2011 alle ore 17:12.

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La diagnosi è certamente condivisibile e ben nota a chi insegna all'università da oltre quarant'anni e ne ha registrato il progressivo deterioramento generale, fatta salva qualche isola felice. Altrettanto condivisibile è l'idea che la "cultura diffusa" non può sopperire all'istruzione scolastica, ordinata per gradi crescenti di approfondimento. Meno condivisibile è l'idea che l'attuale situazione possa essere contrastata a partire dall'università. L'università, infatti, è un recapito finale e non bisogna alimentare l'illusione che essa possa sopperire alle carenze di base, specie se non esistono filtri d'ingresso adatti a selezioni basate su attitudine, competenza e merito.

Non condivisibili sono anche le ibridazioni proposte da qualche docente (Vittorio Marchis) tra corsi di laurea scientifici e materie "umanistiche". Si rischia che diventino iniziative portatrici di ulteriore frammentazione e destinate ad aumentare il numero già eccessivo dei corsi di laurea. Meglio accentuare i caratteri distintivi di ogni percorso di studi, dimagrendolo sino ai soli fondamentali vecchi e nuovi, e lasciare ai dottorati, ai master, agli interessi dei singoli e alla cultura diffusa il compito di mettere in relazione aree di studio anche distanti.

Al centro di questa situazione di crisi delle sedi e dei percorsi formativi; delle idealità, delle aspirazioni e dello spirito di sacrificio dei giovani; dello scarso interesse e delle incertezze educative delle famiglie, sta la scuola media, inferiore e superiore, vecchia ma oggetto di continue innovazioni casuali e pasticciate, indotte da scopi eterogenei, più iscrivibili nelle varie aree funzionali che in quella pedagogica.

Insomma, se una riforma della scuola media e superiore si vuol fare, si deve partire dalla riforma del suo profilo pedagogico; servirà anche all'università. Qualche osservazione elementare può aiutare e la espongo partendo dalle esperienze personali di un docente della facoltà di architettura (dove si entra da qualunque provenienza!); questa precisazione è essenziale perché l'architettura fonda su entrambe le due culture, legate in modo inscindibile (cosa che la distingue sostanzialmente dall'ingegneria). Orbene: è ammissibile che un giovane che entra nell'università sappia qualcosa (o anche tanto) di Leopardi, ma non conosca il significato della forza di gravità o la natura della corrente elettrica? Oppure che sappia cos'è una proporzione (e addirittura un integrale), ma non abbia nozioni minime di storia dell'arte? Che sia abile a tornire un corpo metallico, ma non sappia come funziona l'attrito (e magari ha ottenuto la patente automobilistica)? Che manovri agevolmente la partita doppia ma non conosca la Costituzione? Che abbia studiato proficuamente Kant ma non sappia dov'è il fegato e a cosa serve?

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