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Questo articolo è stato pubblicato il 19 dicembre 2011 alle ore 19:14.

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Gerry Mulligan in concerto con Astor Piazzolla Midem, Francia 1976 (Foto di Franca R. Mulligan)Gerry Mulligan in concerto con Astor Piazzolla Midem, Francia 1976 (Foto di Franca R. Mulligan)

E' quasi una sollevazione. I cultori italiani del grande Gerry Mulligan e del suono ironico e inconfondibile del suo sax baritono sono arrabbiati perché il 2011, anno in cui si potevano approfondire certi aspetti della sua vita artistica cogliendo l'occasione del quindicinale della sua scomparsa, è trascorso quasi per intero senza che nessuno (proprio nessuno?) ci abbia pensato, soprattutto i quotidiani che queste cose ormai le trascurano. Il più giustamente rimproverato è il sottoscritto e me ne scuso, perché è abbastanza risaputo che ero stato vicino a Mulligan quando, negli anni estremi, l'Italia era diventata la sua seconda patria. Che cosa faccio? Parlo di quest'ultima fase quasi ignota, sebbene sia triste. Sintetizzare in un breve articolo il suo percorso di musicista sarebbe inutile, per questo bastano i lemmi delle enciclopedie.

Sapevamo in pochi, nell'autunno 1995, che era gravemente ammalato. Quei pochi che Gerry onorava della sua amicizia e ammetteva a frequentare le sue case, a Darien nel Connecticut (qui si spense il 20 gennaio 1996 dopo esservi tornato in dicembre) e a Milano. A me avvenne di capire tutto in ottobre, pochi giorni prima di un suo concerto milanese con Ornella Vanoni e con il Coro dei Monaci del Tibet. Non lo avevo mai visto così pallido e dimagrito, perfino zoppicante. Grasso non era stato mai, ma nemmeno così magro.

Nel soggiorno della sua casa di viale Piave a Milano. il pianoforte era sempre ingombro di progetti di partiture sinfoniche che il maestro buttava giù a matita con segni sottili. La casa di Milano era stata fortemente voluta dalla moglie Franca Rota, milanese, e lui aveva accettato di buon grado per essere vicino, almeno per qualche mese all'anno, al Teatro alla Scala. La Scala era il suo sogno. Quando poteva assisteva alle prove, frequentava le prime, era diventato amico dei professori dell'orchestra. Quelle partiture, specialmente la splendida "Entente" per sax baritono e orchestra sinfonica, erano destinate a loro. Una sera, fingendo ottimismo e buonumore, gli chiesi che cosa stesse scrivendo di nuovo. «Nulla» rispose senza guardarmi «non servono più».

Era dunque il principio della fine e Gerry lo sapeva. Proprio in quei giorni, per un crudele contrasto, avrebbe avuto almeno due motivi per essere particolarmente soddisfatto. Era appena arrivato nei negozi di tutto il mondo il suo ultimo album per la Telarc, "Dragonfly", uno dei più belli della sua lunga carriera, in cui accanto al Mulligan Quartet degli anni Novanta completato da Ted Rosenthal pianoforte, Dean Johnson contrabbasso, Ron Vincent batteria, c'erano solisti ospiti di valore scelti con cura come Dave Grusin, Ryan Kisor, Dave Samuels, John Scofield, Warren Vaché, Grover Washington. E poi c'era quel concerto che accostava il suono del suo sax baritono alle voci gutturali del Tibet e che rilanciava Mulligan in primo piano fra i ricercatori di nuove sintesi, anche con le civiltà musicali più lontane dai due continenti americani.

Bisogna sapere che Gerry detestava il termine "jazz" al punto da evitare di pronunciarlo: lo considerava limitante, superato e inutile. «Io suono il sax baritono, il sax soprano e il pianoforte, ma prima di tutto sono compositore e arrangiatore» ripeteva. «In quanto tale non accetto alcun limite alla mia creatività che si deve proiettare liberamente in ogni direzione, senza porsi il problema assurdo di rispettare certe regole di linguaggio melodico, armonico e ritmico». Con lui si poteva conversare su tutta la musica, bastava dare un'occhiata agli scaffali dei suoi dischi fra i quali accanto a Ellington, a Parker e ad Astor Piazzolla spiccavano Bach e Mozart. E allora cominciò una gara, complice la moglie, per tenere desta la sua attenzione su progetti futuri, perfino sulla rifondazione, magari occasionale, del suo quartetto senza pianoforte degli anni Cinquanta, un argomento sul quale di solito glissava. Parlare di queste cose e salire su un palcoscenico gli cancellava i segni del male, anzi lo ringiovaniva. E infatti il pubblico del concerto con Ornella Vanoni e con i Monaci non si accorse di nulla.

Che altro? Ricordo che Gerry aveva un carattere non facile. Le sue collere esplodevano improvvise, impressionanti, e le sue litigate feroci con Chet Baker e con Bob Brookmeyer sono rimaste proverbiali. Ma con altrettanta rapidità si calmava, rivelando una profonda umanità e un animo buono.

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