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Questo articolo è stato pubblicato il 12 febbraio 2012 alle ore 08:18.

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Il «Fermoposta» di domenica 29 gennaio sull'uccisione degli animali a finalità commestibile ha generato uno sciame di reazioni disparate, ora pacate ora eccitate. E proprio perché – come allora scrivevo – la questione è ben più complessa di quanto immaginano gli animalisti estremi o gli "umanisti" radicali, abbiamo pensato di ritornare sull'argomento in modo più generale, anche se non esaustivo, naturalmente secondo la prospettiva culturale cristiana. Quest'ultima, infatti, ha elaborato una sua concezione della natura, originale rispetto alle altre civiltà e per secoli dominante in Occidente. Essa potrebbe essere riassunta in due asserti principali.
Da un lato, la tradizione ebraico-cristiana ha demitologizzato la natura che non è perciò né una divinità né frutto di una generazione divina (così accadeva nelle cosmogonie orientali e nello stesso panteismo stoico o indiano), ma è il risultato di un atto creatore e quindi è una realtà finita e limitata. D'altro lato, pur riconoscendo un legame tra uomo e animali attraverso la vita (rûah o "spirito" vitale), ha affermato una netta distinzione qualitativa tra i due, attraverso l'introduzione di un particolare statuto umano variamente descritto in alcuni passi della Genesi: si pensi al simbolismo dell'«immagine e somiglianza divina» (1,27), alla dotazione della coscienza morale nella «conoscenza del bene e del male» (cc. 2-3) e alla funzione di «governo» delegato, di «nomina» e di «custodia e coltivazione» del creato da parte dell'uomo e della donna (1,26 e 2,15-20). L'accettazione della teoria scientifica dell'evoluzione biologica non è incompatibile con l'affermazione teologica e metafisica della specificità umana, variamente declinata (anima, spiritualità, simbolicità, estetica e così via).
In questa prospettiva non si contesta l'uso nutritivo delle carni animali, sia pure con vincoli di taglio igienico-folclorico-sacrale (ad esempio, le norme di purità rituale che escludono alcuni animali dall'essere commestibili, norme superate però dal cristianesimo, come appare nella visione di san Pietro descritta nel c. 10 degli Atti degli Apostoli). Lapidario è il precetto successivo al diluvio: «Ogni essere che striscia e ha vita vi servirà da cibo, come le verdi erbe» (Genesi 9,3). Gesù stesso si nutre di pesce e persino lo cuoce per i suoi discepoli, così come è implicito che abbia consumato l'agnello pasquale.
Tutto questo, però, non impedisce che si sia consapevoli del peccato dell'uomo quando prevarica sul creato in modo tirannico e devastante. È, così, sorto un movimento ambientalista e animalista (talora strettamente vegetariano) cristiano che ha inteso richiamare la meta ideale a cui la stessa Bibbia vorrebbe condurre l'umanità e che è dipinta, ad esempio, dal profeta Isaia con sette coppie di esseri viventi, animali e umani che coesistono in perfetta parità e armonia (11,6-8). In questa creazione perfetta ed "escatologica" – nella quale anche gli animali sono coinvolti – la dieta sarà necessariamente vegetariana: «Ecco, io vi do erba che produce seme e che è su tutta la terra e ogni albero fruttifero: saranno il vostro cibo» (Genesi 1,29).
A una rinnovata sensibilità cosmica, sminuita nella storia del cristianesimo dal l'influsso spiritualistico greco, ha contribuito la figura di san Francesco, anche se la sua era una visione non tanto ecologista ma nettamente teologica, come è attestato dal suo Cantico delle creature: alieno da una concezione panteistica, egli considera il creato come dono di Dio, come segno di bellezza trascendente, come simbolo che conduce al Creatore, sulla scia di quanto si legge nel libro biblico della Sapienza: «Dalla grandezza e bellezza delle creature per analogia si contempla il loro Autore» (13,5). Questa ecologia cristiana sorge intorno agli anni Sessanta del secolo scorso in ambito protestante (in particolare con il teologo americano Joseph Sittler e col Faith-Man-Nature Group del Consiglio delle Chiese protestanti d'America).
Ben presto anche il mondo cattolico vi si associa e, tra i tanti passi dei testi magisteriali ufficiali di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI sul tema, ricordiamo soprattutto il messaggio del 1° gennaio 1990 di Papa Wojtyla Pace con Dio Creatore, pace con tutto il creato, ove si denuncia la crisi ecologica come questione morale, evocando una nuova solidarietà dell'uomo con le altre creature e il creato. Intanto, però, si stavano affermando anche concezioni ambientaliste e animaliste radicali che si alimentavano a religioni e filosofie orientali di stampo immanentistico e reincazionistico. Si trattava di impostazioni spesso sincretistiche dagli esiti più disparati: tanto per fare un esempio ormai famoso, si pensi al saggio Il Tao della Fisica (Adelphi 1982) del fisico nucleare Fritjof Capra che cercava di conciliare la fisica teoretica col misticismo orientale. Oppure all'altrettanto nota e vasta opera Liberazione animale (Mondadori 1991) del filosofo australiano Peter Singer, incline ad assegnare al mondo animale una superiorità rispetto a quello umano.
In America, anche su impulso della rivalutazione del pensiero degli Indiani aborigeni per i quali tutte le forme di vita sono uguali e appartenenti a un'unica comunità, si è registrato un grande successo (ora, però, in crisi) del movimento New Age che, tra l'altro, propugnava un'ecologia "olistica" di stampo pan-spiritualistico. In questa linea si debordava, anche in ambito cristiano, dalla prospettiva sopra descritta e si adottavano definizioni e descrizioni antropomorfiche per gli animali: anch'essi, ad esempio, avrebbero una coscienza etica, percepirebbero il trascendente e pregherebbero (si veda Michel Damien, Un paradiso per gli animali. L'animale, l'uomo e Dio, Piemme 1987). Un capitolo a sé è quello della sofferenza degli animali, definita un po' enfaticamente «un mistero ancor maggiore rispetto al dolore umano» dalla Teologia degli animali di Paolo De Benedetti (Morcelliana 2007).

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