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Questo articolo è stato pubblicato il 23 marzo 2012 alle ore 19:13.
L'ultima modifica è del 23 marzo 2012 alle ore 19:14.

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Nelle sale torna Edgar Allan Poe, ma gli unici sussulti li regalano 17 ragazze francesi. Nella foto un'immagine del film "17 ragazze".Nelle sale torna Edgar Allan Poe, ma gli unici sussulti li regalano 17 ragazze francesi. Nella foto un'immagine del film "17 ragazze".

Edgar Allan Poe e il cinema: un connubio ormai ultracentenario. Era il 1909 quando Edgar Allan Poe divenne per la prima volta un personaggio da grande schermo: a interpretarlo fu Herbert Yost in un breve cortometraggio diretto dal maestro del cinema delle origini David Wark Griffith.

Da quel momento il poeta e scrittore americano, nato a Boston nel 1809 e scomparso a Baltimora solo quarant'anni più tardi, è stato omaggiato con diverse trasposizioni cinematografiche delle sue opere letterarie (si ricordi lo straordinario ciclo diretto da Roger Corman negli anni '60) e con diverse pellicole in cui la sua figura appare come protagonista. Tra queste, la più recente è «The Raven» di James McTeigue, che arriva nelle sale italiane in questo penultimo weekend di marzo. Interpretato da John Cusack, Poe viene chiamato, all'interno di un soggetto di pura fantasia, a indagare su un serial killer che uccide le sue vittime ispirandosi direttamente agli omicidi presenti nei suoi racconti. Nonostante le intenzioni suggestive, la frettolosa e poco studiata sceneggiatura spinge il film verso un finale pacchiano che fa risultare «The Raven» un titolo più grossolano che affascinante, complice anche un John Cusack totalmente fuori parte.

Indeciso su quale tipo di stile adottare, McTeigue sembra aver già perso, alla sua terza opera, la verve creativa che aveva dimostrato nel bell'esordio «V per vendetta»: deciso a realizzare un prodotto a metà tra i thriller degli anni '90, alla «Seven» di David Fincher, e le reinterpretazioni postmoderne di «Sherlock Holmes» di Guy Ritchie, ha sprecato un soggetto meritevole di maggior fortuna. Tutt'altro risultato avrebbe raggiunto se il suo lavoro si fosse ispirato, più che a pellicole recenti, all'eleganza formale di un titolo come «Oscar insanguinato» del 1973 di Douglas Hickox, dove un eccellente Vincent Price interpretava un attore teatrale che uccideva i suoi detrattori inscenando per ognuno i finali delle più famose tragedie shakespeariane.

Pellicola ben più profonda e persino più angosciante è «17 ragazze», opera prima delle sorelle francesi Delphine e Muriel Coulin, vincitrice del Premio speciale della Giuria allo scorso Torino Film Festival. Ispirato a un fatto di cronaca avvenuto in Massachusetts nel 2008, il film, ambientato in un piccolo centro della Bretagna, ha per protagonista la liceale Camille che, rimasta incinta per errore, invita sedici coetanee a seguire il suo esempio al fine di creare una sorta di comunità rivoluzionaria, composta da madri adolescenti e basata sulla solidarietà reciproca.

Girato con grande rigore formale e altrettanta (a tratti eccessiva) partecipazione emotiva, «17 ragazze» è un intenso grido di ribellione, quasi commovente nel suo ingenuo idealismo, in grado di generare interrogativi e riflessioni tutt'altro che banali: le registe ci lasciano infatti, saggiamente, nel dubbio se l'utopia di Camille nasconda semplicemente il desiderio di non sentirsi sola ad affrontare la gravidanza, o se il suo disagio esistenziale e generazionale sia ancor più profondo.
Seppur in netto calo verso la conclusione, «17 ragazze» è l'unico film davvero da consigliare di questo non troppo ricco weekend.
Da segnalare, infine, tra le nuove uscite anche «Cosa piove dal cielo?» dell'argentino Sebastián Borensztein. Protagonista è Roberto, introverso proprietario di una ferramenta di Buenos Aires, incapace di stringere legami significativi con altri esseri umani da più di vent'anni. La sua vita cambierà dopo l'incontro con il cinese Jun, appena arrivato in Argentina senza conoscere una parola di spagnolo: incapace di abbandonarlo a se stesso, Roberto lo accoglierà in casa sua.

Prevedibile nella trama e privo di qualsiasi mordente cinematografico, «Cosa piove dal cielo?» è un'opera forzatamente grottesca, che vuole catturare favori a tutti i costi alternando grossolanamente dramma e commedia, presunto impegno sociale e trovate surreali, fino ad arrivare a una conclusione melensa e ricattatoria. Vincitore dell'ultimo Festival di Roma, «Cosa piove dal cielo?» è l'emblema di una manifestazione che, almeno per quanto riguarda i titoli in concorso, c'è da augurarsi riesca a raggiungere sotto la nuova guida di Marco Müller un livello ben superiore rispetto a quello mostrato nelle ultime edizioni.

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