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Questo articolo è stato pubblicato il 15 maggio 2012 alle ore 08:00.

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Foto di Piero MartinelloFoto di Piero Martinello

Altro che sterco del diavolo, ne emana un profumo inebriante. Il profumo dei soldi. Il loro suono, come quello di un'orchestra jazz in cui ogni strumento accumula e arricchisce gli altri. Il fruscio delle banconote da venti o cento euro quando il cassiere te le mette in mano per cambiarti l'assegno che ti sei conquistato con il tuo lavoro e con il tuo talento, e meglio ancora se gli zeri nella cifra in alto a destra dell'assegno sono parecchi perché vuol dire che il tuo lavoro è stato tanto e buono e riconosciuto. I soldi da spendere e con cui fare vivere il lavoro degli altri e farne nascere dell'altro di lavoro. I soldi che rimbalzano da chi compra a chi vende, il quale comprerà a sua volta da qualcun altro che venderà a sua volta e tutto questo alla faccia di chi predica quaresima (degli altri).

Le serrande dei negozi che si alzano e c'è chi entra e vuole e può, non le stramaledette strade delle città dove dall'oggi al domani trovi le serrande chiuse perché chi ci stava dentro – un ristorante o un negozio di dischi o di cibi per gli animali – ha alzato bandiera bianca. I soldi che fanno la loro corsa naturale e sfrenata, nell'andare da chi ha comprato e pagato un lavoro a chi quel lavoro lo aveva fatto, e che in questa loro corsa fungono da barometro delle libertà di tutti, della democrazia reale, della civiltà di una società matura. E difatti siamo ancora qui a rimpiangere l'aura e la vitalità dei magnifici anni 60 in Italia, gli anni modellati da un boom economico che in 15 anni aveva fatto crescere il Pil pro capite del 260 per cento.

E non c'è chiacchiera alata o fumisteria sulle "società a misura dell'uomo" che valga il confronto con quella sonante cifra percentuale a tre cifre, il 260 per cento in più. Sì, il 260 per cento in più di beni, di possibilità, di consumi che era stato conquistato da un'Italia dove a fare da primattori furono Vittorio Valletta, Enrico Mattei, il presidente Luigi Einaudi, Adriano Olivetti, Raffaele Mattioli, il leader comunista della Cgil Giuseppe Di Vittorio, l'Arrigo Benedetti che aveva fondato l'Europeo e L'Espresso, ma anche il Mike Bongiorno che ci credé così ostinatamente nelle potenzialità comunicative di quel cubo catodico che una famiglia italiana ce l'aveva e dieci no, un cubo catodico che aiutò gli italiani a sentirsi più italiani, e dove lui pronunciava come alzandosi in punta di piedi il termine "sponsor", e voleva dire che grazie a quella determinata azienda e ai suoi soldi stavamo gustando quella determinata ridda di vincitori e vinti. No sponsor, no party.

Se non ci sono i soldi dell'investitore pubblicitario nada di nada. Chiedetelo agli assessori alla Cultura delle grandi città se oggi non è così, se sì o no lo sponsor è indispensabile. Nemmeno le cose più sacre e irrinunciabili possono rinunciare al calcolo dei costi e dei ricavi, nemmeno le preghiere pronunciate nella Cattedrale, e che le cose funzionino così lo dimostra l'ipersensibilità del Vaticano quanto al pagamento dell'Ici.
Me la ricordo come fosse adesso l'aura dei primi 60. Mio padre era separato da mia madre e mi dava la "paghetta" mensile con cui compravo pizze e libri, più libri che pizze. Un giorno dei 60 quella "paghetta" passò d'un colpo da seimila a 30mila lire il mese. Il mio conto in acquisti a rate dei libri della Einaudi se ne impennò.

E non è che mio padre avesse rubato o trafficato droga o procacciato escort (a Catania le chiamavamo "buttane"). Solo aveva lavorato, ci aveva dato sotto nel suo mestiere di commercialista. In più non è che lo Stato gli portasse via il 60 per cento di quanto aveva guadagnato, come oggi. Si pagavano poche e pochissime tasse nell'Italia dei 50 e inizio 60. Ne è nata ricchezza per tutti. Nelle case entrarono i frigoriferi, i televisori, più tardi le lavastoviglie, ossia ore e ore di lavoro risparmiato per le casalinghe. Non avevi le pensioni sociali, ma al peggio con quello che guadagnavi ti ci compravi un garage o un pezzo di terra. Di certo non funzionava come funziona nell'Italia del terzo millennio, quando s'è fatta abnorme l'industria della "democrazia", quando i 203 vitalizi annui a carico della Regione Sicilia e della Regione Lombardia costano al contribuente italiano 21,5 milioni di euro e 7,6 milioni.

I siciliani remunerati tre volte più dei lombardi. Da far togliere il nome di Giuseppe Garibaldi da tutte le strade d'Italia, e ve lo sta dicendo uno degli ammiratori più strenui dei Mille. Solo che evidentemente si sbagliarono. Dire soldi è parlare di filosofia. Non tutti ne sono degni di quell'argomento. Secoli e secoli in cui i ricchi erano riusciti a convincere i poveri che parlare di "soldi" non fosse chic hanno come corroso la capacità di ragionamento. Quando si parla di soldi in Italia, il più delle volte è un cicaleccio da bar, il trionfo dell'invidia sociale, il dare addosso all'erba del vicino che è più verde della tua, un imprecare a vuoto contro gli "evasori fiscali" e come se gli evasori fiscali non fossero tutti attorno a noi e non li conoscessimo uno a uno, a cominciare da quell'artigiano mio amico che vota per Rifondazione comunista e mi ha confessato di non avere mai pagato al fisco una lira. Mai.

I giornali dove lavorano a bizzeffe i figli del '68, educati alla filosofia che i soldi non si contano e bensì che l'averli è un diritto, ci mettono del loro a creare confusione. Due volte su tre in uno dei tanti articoli in cui vengono presi di mira quelli che guadagnano bene, e come se guadagnare bene fosse di per sé motivo di onta, non viene precisato se le cifre addotte sono al netto o al lordo del prelievo fiscale. È esilarante che nelle pagine economiche di giornali importanti qualcuno scriva che l'aliquota massima è il 43 per cento, l'aliquota che viene effettivamente applicata ai Paperoni che dichiarano un reddito superiore a 75mila euro lordi l'anno, una cifra corrispondente a un netto mensile di circa 3.600 euro. Solo che a quel 43 per cento devi aggiungere il cinque per cento di Irap che grava sul lavoro autonomo anche quando in tutto e per tutto – come nel caso mio – l'organizzazione di questo lavoro comporta un computer e qualche scaffale di una biblioteca.

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