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Questo articolo è stato pubblicato il 24 agosto 2012 alle ore 07:46.

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In principio fu il gas. Agli inizi del XXI secolo, gli Stati Uniti ne producevano sempre meno; presto ne sarebbero diventati grandi importatori, poiché i consumi continuavano a crescere. Così una piccola società texana – la Mitchell Energy – decise di gettarsi in un'avventura rischiosa, seguendo un modello pionieristico che da sempre rende imprese spesso minuscole le vere protagoniste di ogni innovazione di frontiera in America. L'avventura verteva sul tentativo produrre gas da giacimenti non convenzionali, conosciuti ma fino ad allora mai sfruttati per ragioni economiche e assenza di adeguate tecnologie.

Chiamati "shale" o "tight", questi giacimenti sono costituiti da rocce calcaree, arenarie, quarzo e argilla: quando quest'ultima è predominante, si parla di shale, altrimenti le formazioni sono semplicemente tight. In molti casi, giacimenti tight sono confusi con gli shale, perché all'analisi dei dati di giacimento risultano pressoché simili. A vederle a occhio nudo, le rocce di cui si compongono possono ricordare granito o cemento e nessuno crederebbe che contengono gas e petrolio in enormi quantità. In effetti, per tutto il secolo scorso il loro bassissimo livello di porosità e permeabilità ha reso impossibile estrarre le preziose fonti di energia che imprigionano a costi contenuti e in quantità accettabili. Da qui la sfida improba della piccola Mitchell.

La società aveva sperimentato una nuova combinazione di due tecnologie già esistenti su giacimenti di shale gas, la perforazione orizzontale e la fratturazione idraulica, o "fracking". Nella perforazione orizzontale, la trivella scava un pozzo in verticale nel sottosuolo, per poi deviare a 90 gradi ed entrare in lunghissimi ma poco spessi strati di rocce orizzontali che, come spugne solide, imprigionano idrocarburi. È a questo punto che interviene la fratturazione idraulica. Mentre la trivella procede, si "sparano" acqua, sabbia (o ceramica) e agenti chimici all'interno del pozzo, a intervalli regolari. L'acqua rompe la roccia, sabbia e agenti chimici impediscono che le fratture create si richiudano o implodano, e favoriscono la "fuga" in superficie di gas e petrolio.

La Mitchell (1) si gettò nell'avventura nel 2000 nel giacimento di Barnett Shale (in realtà, un giacimento tight), in Texas. Dopo molte difficoltà iniziali ebbe successo, dimostrando che gli immensi giacimenti di shale gas degli Stati Uniti potevano essere sfruttati.
Fu l'inizio di una rivoluzione silenziosa, che esperti e grandi compagnie petrolifere snobbarono a lungo. A partire dalla regina delle multinazionali del petrolio, la Exxon, tutti ritenevano che quella dello shale gas fosse una bolla destinata a sgonfiarsi presto, per molte ragioni: il gas effettivamente recuperabile era solo una minima frazione di quello contenuto nei giacimenti; la produzione iniziale fluiva impetuosa, ma declinava altrettanto rapidamente; i costi sembravano non remunerativi. Inoltre, tutti sottovalutarono la dimensione delle riserve di shale gas.

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