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Questo articolo è stato pubblicato il 27 agosto 2012 alle ore 15:46.

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La norma di giudizio a cui s'attiene il Premio Campiello da ormai mezzo secolo sembra compendiabile in una sola frase, di goethiana memoria: «un libro è valido quando al consenso della critica aggiunge quello popolare». La ripeteva spesso un narratore e germanista valente come Bonaventura Tecchi, che insieme all'avvocato Mario Valeri Manera e Gian Edilio Rusconi figura tra i fondatori della kermesse veneziana. Dietro a loro, così da assicurare al premio risorse economiche e durevolezza nel tempo, stanno le organizzazioni industriali venete; e ben s'intende che nell'aggettivo «valido», cioè efficace, attraente per i più, e in quel verbo all'apparenza tanto neutro, «aggiunge», risiede un'intera concezione letteraria.

Chiariamo subito che si tratta di una concezione pragmaticamente borghese, aliena da retaggi di ordine sostanzialista quanto da dispute inesauste tra tutori del bello e preferenze del pubblico. Insomma, suggeriscono i campiellisti, sul conflitto astratto dei valori, sempre incerto o viziato da preconcetti, meglio sarebbe lasciar prevalere un ideale di fattiva collaborazione; ed è perciò che sin dall'inizio, nel 1962, si è stabilita una struttura esaminatrice a doppio livello.
Da un lato una dozzina di critici professionisti; per lo più di area cattolica, almeno agli inizi: Leone Piccioni e Giancarlo Vigorelli, Giorgio Bàrberi Squarotti e Carlo Bo; sino a figure di credenti indocili come Diego Fabbri e Giovanni Testori (in giuria nel 1980). Dall'altro una platea di trecento lettori, i cui nomi, a garanzia di imparzialità, restano ignoti sino al giorno della designazione.

Di recente, il premio ha destato accuse di condiscendenza a un gusto letterariamente incondito, in certa misura piatto, incolore: e può anche essere che ve ne sia ragione. Sarebbe però ingeneroso negare a una simile formula il merito di aver favorito opere poi consegnate alle antologie, romanzi, memorie o racconti drammatizzati sul cui pregio resta vano contendere.
Nell'edizione di esordio, è Primo Levi con La tregua ad aggiudicarsi la "vera da pozzo", il cimelio che meglio emblematizza la socialità promiscua dei sestieri lagunari. Gli fanno seguito, tra i grandi autori che si sono aggiudicati il premio e che certamente soddisfano il criterio di unire critica e successo di pubblico, Giuseppe Berto con Il male oscuro (1964), Ignazio Silone con L'avventura di un povero cristiano (1968), Gesualdo Bufalino con Diceria dell'untore (1981), Antonio Tabucchi di Sostiene Pereira (1994), Giuseppe Pontiggia di Nati due volte (2001).

La giuria popolare dei trecento lettori – selezionata dal Premio in modo tale da rispecchiare per età, sesso, stratificazione sociale l'Italia che legge – si trova a decidere entro un arco ristretto di tempo un arco altrettanto ristretto di proposte: la famosa cinquina, stabilita in anticipo dai critici secondo valutazioni spesso opache.
Scorrendo l'albo d'oro, alcuni addensamenti tipologici paiono nondimeno istruttivi. In primo luogo l'area – nutritissima – che dall'autobiografia va al memoriale, al romanzo biografico; e che nell'insieme restituisce il senso di un'esperienza vissuta, secondo un'affabulazione che ha cura di non incrinare le impalcature di una realtà condivisa o largamente nota. Oltre a Levi e Pontiggia, si situano qui opere di vario tenore come Ritratto in piedi di Gianna Manzini (1971), Carlo Magno di Gianni Granzotto (1978), Le strade di polvere di Rosetta Loy (1988), La lunga vita di Marianna Ucrìa di Dacia Maraini (1990), Esilio di Enzo Bettiza (1996).

A ridosso di questo primo contingente, e spesso intrecciato con esso, stanno i romanzi a sfondo storiografico: Storia di Tönle di Mario Rigoni Stern (19 79); La valle dei cavalieri di Raffaele Crovi (1993); cui si aggiungono peculiari ibridazioni di verità documentaria e leggenda, edificazione individuale e cadenze fiabesche, come La conchiglia di Anataj di Carlo Sgorlon (1983) o Il coraggio del pettirosso di Maurizio Maggiani (1995). Ne costituiscono un sottotipo specifico le opere a tema religioso, non soltanto il ricordato Silone e il dramma di papa Celestino V, ma Per amore, solo per amore di Pasquale Festa Campanile, dove la vicenda di Giuseppe e Maria si snoda in modo rispettoso e struggente (1984). E ancora: è da questa medesima polla di argomento sacro che insorge un certo gusto per l'arcaico, per il fascino che promana da un'insularità remota: linguisticamente composita in Salvatore Niffoi di La vedova scalza (2005), o dal resoconto fluido, appena soffuso di sardismi, come in Accabadora di Michela Murgia (2005). Mentre più esiguo e distribuito è il gruppo che si rifà al codice della narrazione attualista o di costume: L'Airone di Giorgio Bassani (1969); Il talento di Cesare De Marchi (1998); La forza del passato di Sandro Veronesi (2000).

Non sono che esempi, localizzati tra molti e di diversa fattura. Ma nell'insieme testimoniano la medietà cautelosa, l'inclinazione Middlebrow, direbbero gli americani, delle letture a cui ci invitano i selezionatori del Campiello. Il quadro che ne esce è indubbiamente di tipo istituzionale, tende anzitutto, in letteratura, a conservare, o, se vogliamo, a innovare con criterio, magari poggiando su una sussidiarietà tra fiction e non fiction che si è stabilita in Italia a partire dagli anni sessanta e settanta del Novecento.

Se poi la presenza di un romanzo in cinquina riesce di per sé a garantirgli visibilità e prestigio, è pur vero che la decisione di non premiarlo torna altrettanto significativa. E le esclusioni illustri abbondano, da collocarsi vedi caso sul lato alto, avanguardistico ed espressionista del sistema. Nel 1970 La meccanica di Carlo Emilio Gadda perde dinnanzi a L'attore di Mario Soldati; l'anno seguente Alberto Arbasino con La bella di Lodi è superato da Per le antiche scale di Mario Tobino (ritenterà senza successo nel 1994, con la terza versione di Fratelli d'Italia); e così è per La lunga notte di Emilio Tadini, nel 1987, che resta surclassato da Raffaele Nigro con I fuochi del Basento.

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