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Questo articolo è stato pubblicato il 18 ottobre 2012 alle ore 07:58.

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Siamo ancora qui. Obama e Romney non escono da questo binario. Un osservatore straniero che non abbia letto Alexis de Tocqueville (1) o sia intriso di pregiudizi può pensare che questa sia una forma di fanatismo nazionalista, ma la retorica del sogno americano non è patriottismo, è un'idea rivoluzionaria che attrae gente che vive in tutto il mondo e che spesso in America non c'è mai stata: gli ebrei russi che nel Novecento scappavano dai pogrom, i berlinesi assediati dai sovietici, i sindacalisti polacchi di Solidarnosc, i curdi massacrati da Saddam e così via.

Questa forte tradizione identitaria è la fonte primaria dell'urgenza americana per la missione divina, per il destino manifesto e per l'imperativo morale di voler aiutare il resto dell'umanità, anche se naturalmente la realizzazione spesso non è all'altezza dei principi fondatori. E infatti c'è chi non la beve, chi pensa che in realtà il sogno americano sia un incubo colmo di ingiustizia, di ignoranza e di diseguaglianza. Senza scomodare gli antiamericani di professione, seguaci a loro volta di ideologie illiberali alternative a quella americanista, non possono sfuggire i dati sulle difficoltà del ceto medio, le statistiche su chi ha perso il lavoro, su chi non può più pagare il mutuo della casa, su chi non può permettersi le cure mediche.

La vita degli americani è molto più dura di quella degli europei occidentali, provate a fare un giro nello sperduto West del Paese, nella sterminata campagna del Sud, nelle praterie del Midwest. «Il capitalismo produce vincitori e vinti – ha scritto lo storico Jon Meacham nel saggio Rinnovare il sogno americano –. 
Alcuni sogni sono veri, altri no. Uguaglianza dei risultati però non è la stessa cosa di uguaglianza di opportunità e l'uguaglianza di opportunità è il cuore dell'idea americana». Basta guardare la prima puntata della serie televisiva The Newsroom di Aaron Sorkin o un documentario di Michael Moore o un film di Spike Lee o una biopic di Oliver Stone per cogliere quanto sia diffuso anche tra le élite il rifiuto dell'idea che l'America sia davvero un'eccezione nel pianeta. Eppure, come diceva Christopher Hitchens, la Rivoluzione americana è l'unica rivoluzione del mondo ancora attrattiva e con un potenziale, l'unica che sta ancora in piedi e anche la più longeva. Una cosa che trenta o quaranta anni fa in pochi avrebbero previsto (mentre scrivo guardo una copertina di Time di fine settembre 1987, il titolo è sull'irresistibile macchina da guerra spaziale dell'Unione Sovietica, foriera di ulteriori e progressivi successi. Due anni dopo l'Unione Sovietica è scomparsa).

Il destino dell'America, ha scritto il patriota ungherese Louis Kossuth nel 1852, è essere la pietra angolare della libertà. Nel momento in cui l'America dovesse perdere questa consapevolezza sarebbe l'inizio del suo declino. Ecco perché la sfida tra Obama e Romney si gioca sulla rappresentazione dell'American Dream. Ecco perché i repubblicani, oltre a sottolineare con qualche ragione la persistente crisi economica e l'aumento del debito pubblico nell'America di Obama, provano meno lealmente a mettere in dubbio che le ricette socialisteggianti del presidente, e il presidente stesso, non siano sufficientemente in linea con la tradizione americana. Non c'entra il razzismo contro il presidente nero. C'entra, semmai, che solo sul tradimento dell'epopea del sogno americano, e sul timore che la protezione eccessiva dello Stato possa fiaccare il carattere americano, risieda la chance dei repubblicani di riconquistare la Casa Bianca.

L'accusa a Obama non viene dismessa come bassa propaganda elettorale perché effettivamente la ripresa tarda a farsi sentire e perché è vero che le politiche del presidente hanno ulteriormente aumentato il debito pubblico, ma continua a suonare poco credibile perché la Casa Bianca non ha fatto altro che affrontare la crisi economica iniziata prima della sua elezione con le stesse misure (e con gli stessi uomini) di George W. Bush alla fine del suo mandato. Obama, poi, ha gioco facile a replicare agli avversari che grazie al suo intervento pubblico il sistema finanziario, l'industria automobilistica e l'economia americana si sono salvati («Detroit is alive and Osama is dead», è la sintesi efficace dei suoi primi quattro anni). Anche se poi è obbligato a dire, come alla convention di Charlotte, che «lo Stato non può risolvere tutto», per poi aggiungere «ma non è nemmeno la causa di tutti i mali». Il paradosso di Obama è proprio questo: è accusato da destra e sinistra in coro e per i motivi opposti. I repubblicani dicono che è un socialista, il Nobel per l'Economia Paul Krugman lo accusa di essere un repubblicano moderato. I conservatori sostengono sia un presidente anti business, i radical che si sia venduto a Wall Street (Obama, tra l'altro, è uno degli obiettivi polemici del movimento Occupy Wall Street).

La destra spiega che la riforma sanitaria obamiana è il primo passo verso l'europeizzazione dell'America, la sinistra lamenta che per la smania di conquistare consensi al centro, peraltro mai arrivati, Obama abbia sprecato l'occasione di cambiare sul serio il sistema sanitario americano che, invece, rimane gestito e pagato dai privati. La stessa cosa è successa sulla politica estera e di sicurezza nazionale. Obama è contemporaneamente il presidente che va in giro a scusarsi con il mondo (secondo i repubblicani) ma anche il più feroce utilizzatore della supremazia militare americana (secondo i suoi critici di sinistra). Obama è accusato dai conservatori di non aver sostenuto le primavere arabe e ora che laggiù si sente l'arrivo dell'autunno è criticato dagli stessi repubblicani per averle aiutate fin troppo a danno dei tradizionali amici degli Stati Uniti. Da sinistra lo spingevano a intervenire in Libia per fermare i massacri annunciati da Gheddafi, salvo poi criticarlo per aver abbattuto con la forza il dittatore libico in linea con la politica del regime change cara a Bush. Ora l'asse polemico si è spostato più a est, in Siria, e finché Obama non interverrà direttamente riceverà critiche apocalittiche di indifferenza morale e inadeguatezza a guidare l'America sia dalla destra sia dalla sinistra.

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