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Questo articolo è stato pubblicato il 23 ottobre 2012 alle ore 08:01.

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Friedrich Schiller – uno che con I masnadieri faceva svenire le dame in platea un secolo e mezzo prima di Elvis – distingueva due tipi di poeti: quelli che non si accorgono della frattura tra sé medesimi e la realtà che li circonda e quelli che hanno invece questa consapevolezza.

Per i primi, i naiv (Omero, Shakespeare, Paul McCartney), l'arte è una forma di espressione naturale: felicemente sposati con la propria musa, hanno con lei un rapporto tranquillo, puro, gioioso; per gli altri, invece, i sentimentalisch, i poeti dopo la caduta, la relazione con Tersicore e Calliope è sempre turbolenta e infelice e l'effetto che ne risulta non è la gioia e la pace, ma la tensione, il conflitto con la natura e la società, la brama insaziabile. A questa seconda categoria di poeti – quella dei "sentimentali" – appartengono Virgilio e Ariosto; e sicuramente anche Bruce Springsteen.
L'ultima volta che ho visto Springsteen dal vivo è stato ad Hyde Park, quando ha preso in mano il microfono e ha detto: «Sono quarant'anni che aspetto questo momento… Signore e signori, Sir Paul McCartney!» e voilà, sul palco, accanto a lui, si è materializzato il più grande genio musicale vivente, il Mozart del pop, l'autore di Eleanor Rigby e di Hey Jude, il coproduttore di quella sfavillante fantasia in technicolor chiamata Pepperlandia, dove al visitatore capita ancora oggi di incontrare taxi fatti di giornale, sottomarini gialli, uomini-uovo e ragazze con occhi caleidoscopici; l'artista ingenuo (in senso schilleriano) per eccellenza, l'alterità dialettica del ragazzo americano che non sarebbe mai riuscito a trasformare la grigia Forthlin Road – la strada del sobborgo di Liverpool dove il piccolo Paul abitava – nella scintillante Penny Lane dell'omonima canzone: per Bruce, Freehold, la contea di Monmouth e tutto il New Jersey non erano altro che «una trappola mortale, una condanna al suicidio» (Born to Run) da cui scappare a cento all'ora su un'auto truccata. Tanto è vero che, anche recentemente, Springsteen, dopo aver reso il dovuto tributo alla grandezza dei Fab Four, ha ricordato come il suo gruppo beat preferito negli anni Sessanta fossero piuttosto gli Animals, quelli che cantavano «in questa lurida zona della città / dove il sole si rifiuta di splendere / la gente mi dice che non vale la pena di provare».

«Per me gli Animals furono una rivelazione – dice Springsteen – e i loro furono i primi dischi impregnati di fiera coscienza di classe che avessi mai ascoltato. Quando sentii per la prima volta We Gotta Get Out of This Place alla radio fu come se qualcuno mi avesse messo davanti uno specchio: quella era la mia vita, la mia giovinezza!». C'era anche una fascinazione di tipo estetico in quella preferenza: prendete il faccino tondo di Paul, con la boccuccia a cuore, gli occhioni, la frangetta, e confrontatelo con Eric Burdon: «Sembrava la versione ridotta di tuo padre con una parrucca in testa – dice Springsteen –; non ha mai avuto una faccia da ragazzino. Non sapeva ballare. Gli facevano indossare dei completi, ma era come mettere lo smoking a un gorilla. E poi… The Animals. Che nome! Tutta un'altra storia rispetto ai Beatles, agli Herman's Hermits o a Freddie and the Dreamers. Era un nome implacabile, definitivo, irrevocabile. Era come uno schiaffo. Il nome meno apologetico mai escogitato per un gruppo prima dell'avvento dei Sex Pistols».

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