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Questo articolo è stato pubblicato il 19 novembre 2012 alle ore 12:21.

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Esiste il fragilista in campo medico, che eccede nell'intervenire, negando la capacità naturale che ha il corpo di risanarsi somministra farmaci che hanno possibili effetti collaterali gravi, il fragilista politico che scambia l'economia per una lavatrice che ha bisogno di continue riparazioni (effettuate dal fragilista stesso) e finisce per metterla fuori uso, il fragilista psichiatrico, che interviene sui ragazzini per «migliorare» la loro vita intellettuale ed emotiva, la mamma attiva e fragilista, il fragilista finanziario, che induce altri ad avvalersi di modelli di «rischio» che distruggono il sistema bancario (per poi utilizzarli da capo), il fragilista militare, che disturba sistemi complessi, il previsore fragilista, che vi fa prendere sempre più rischi.
Al dibattito politico manca un concetto. I politici mirano ai timidi concetti di «resilienza», «solidità» e non all'antifragilità e così soffocano il meccanismo della crescita e dell'evoluzione. Non siamo arrivati a essere quel che siamo grazie al rammollitissimo concetto di resilienza. E quel che è peggio, non siamo quel che siamo grazie ai politici, ma ci siamo arrivati grazie al desiderio di venire alle prese con il rischio e l'errore di un certa classe di individui che dovremmo incoraggiare, tutelare e rispettare.

Un sistema complesso non ha bisogno di sistemi e regole complicate, né di politiche involute. Più è semplice meglio è. La complicazione porta a catene di effetti imprevisti. A causa della sua opacità, ogni intervento conduce a conseguenze inattese, seguite dalle scuse per il loro aspetto «imprevisto» e che quindi necessitano di un ulteriore intervento al fine di correggere gli effetti secondari, il che porta alla ramificazione esplosiva di risposte «impreviste», ciascuna delle quali è peggiore della precedente. Ciò nonostante, non è facile realizzare la semplicità nella vita moderna: questo concetto è contrario allo spirito di quel particolare tipo di individui che va in cerca di sofisticazione e complicazione così da poter giustificare l'esistenza della loro professione.
Nel meno sta il più e solitamente è più efficace. Quello che propongo è un itinerario per modificare i nostri sistemi di realizzazione umana in modo da permettere al semplice (e al naturale) di fare il proprio corso.
Ma realizzare la semplicità non è semplice. Steve Jobs l'aveva capito: «È duro chiarire il proprio pensiero per renderlo semplice».

Il viaggio verso l'idea di antifragilità è stato non-lineare. Un giorno ho capito che la fragilità (che non aveva una definizione tecnica) poteva essere espressa come ciò che non ama la volatilità e che ciò che non ama la volatilità non ama casualità, incertezza, disordine, errori, fattori di stress. Pensate a qualcosa di fragile, ad esempio gli oggetti nel soggiorno come il vetro nella cornice, il televisore o la porcellana. Se li etichettate come "fragili" vorrete per forza che siano lasciati in pace, in condizioni di calma, ordine e prevedibilità. Un oggetto fragile non potrebbe in alcun modo trarre beneficio da un terremoto o dalla visita di un nipotino iperattivo. Inoltre tutto quel che non ama la volatilità preferisce evitare fattori di stress, danni, caos, avvenimenti, disordine, conseguenze "impreviste", incertezze e, cosa importante, il passare del tempo. L'antifragilità deriva da questa definizione esplicita di fragilità. L'antifragilità ama la volatilità e ama il tempo. Inoltre esiste un nesso potente e utile con la non linearità: tutto quanto suscita una risposta non lineare è fragile o antifragile rispetto a una fonte di casualità.

L'aspetto più strano è che questa proprietà ovvia, ossia che tutto quanto è fragile, odia la volatilità e viceversa, era estranea al dibattito scientifico e filosofico. Viceversa, lo studio della sensibilità delle cose più diverse alla volatilità è la strana specializzazione lavorativa nella quale ho trascorso gran parte della mia vita da adulto. In quella professione ero concentrato nella scoperta di elementi che «amavano la volatilità» o «odiavano la volatilità». Di conseguenza ciò che dovevo fare era allargare le idee desunte dal settore finanziario al quale mi ero dedicato al concetto più ampio di processo decisionale in condizioni di incertezza nei campi più diversi, dalla scienza della politica alla medicina ai piani per una cena. In quella strana professione di persone che lavorano con la volatilità esistevano due tipi di professionista: la prima categoria era composta da accademici, compilatori di rapporti e commentatori che studiano gli avvenimenti futuri e scrivono libri e studi; la seconda era costituita da professionisti più pratici che, anziché studiare gli avvenimenti futuri, cercavano di studiare in che modo le cose reagiscono alla volatilità. La differenza tra queste due categorie è fondamentale: capire se qualcosa può essere danneggiato dalla volatilità (e quindi è fragile) è molto più facile e semplice che cercare di prevedere gli eventi dannosi, come un Cigno Nero smisurato. Ma solo chi studia le cose nella pratica (o le persone che fanno le cose) tende a capire spontaneamente questo punto.

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