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Questo articolo è stato pubblicato il 26 gennaio 2013 alle ore 16:39.

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L'economista scozzese Adam SmithL'economista scozzese Adam Smith

L'infelicità che proviamo oggi per il tremendo disastro economico in Europa e altrove non ha soltanto una componente benthamiana nella mancanza di piacere e nella presenza di dolore, ma anche svariati motivi di disapprovazione: la libertà umana negata da fenomeni come la disoccupazione di massa; l'oltraggio etico davanti a vite maltrattate da banche e istituti finanziari e anche la profonda delusione per l'incapacità dei governi nazionali e delle istituzioni internazionali di adottare politiche al contempo intelligenti e compassionevoli. Se dico che quanto accade in Europa mi rende infelice, non sto comunicando per forza una mia personale perdita di utilità benthamiana, ma un paniere ben più capiente di consapevolezze e di conoscenze che mi fanno disapprovare la gestione della crisi in questi ultimi anni.
Abbiamo ragione di essere molto infelici per l'Europa anche dal punto di vista della ben più capiente filosofia spontanea di Gramsci. Il lamento di Dante può esprimere l'infelicità per quanto siamo vulnerabili oggi, sennonché il "poco vento" è un'immane bufera causata dal cattivo operato dei mercati e da una lunga serie di cattive politiche adottate dagli stati e da istituzioni statali e regionali. Siamo caduti, certo, ma abbattuti da una violenta tempesta di mercati manipolati e di madornali errori dei nostri governanti.

Quanto alla disuguaglianza, vicende contrastanti e disparate hanno spaccato la popolazione. Nella brutale recessione che il mondo, e l'Europa in particolare, sta attraversando, c'è un numero enorme di persone disoccupate, dai redditi drasticamente ridotti, che non possono permettersi beni e servizi essenziali e hanno poca libertà di gestire la propria vita, mentre altre prosperano. E' tipico di una crisi economica suscitare forti divisioni, eppure il senso di infelicità per qualcosa di molto sbagliato può essere provato sia da quelli colpiti dalla lunga recessione che da quelli immuni che ne sono comunque oltraggiati. La povertà, la miseria non si condividono, l'oltraggio sì e, per l'infelicità in senso lato, basta e avanza.

Perché l'Europa è tanto nei guai? In effetti ha due problemi da affrontare: l'inflessibilità della moneta unica nella zona euro e la gestione della recessione attraverso la politica di austerità scelta da potenti leader politici e finanziari europei. Ne ho già scritto altrove ("Cosa ti è successo, Europa?" Domenica- Il Sole 24 Ore, 26 agosto 2012, ndr) e sarò breve. Nella zona euro, l'integrazione e l'unione monetaria realizzate prima di avere il sostegno di una più stretta unione politica e fiscale non suscitano solo infortuni economici ma anche rapporti ostili tra i popoli dei vari paesi.
Di conseguenza, lo scenario di crisi e di salvataggi in cambio di tagli draconiani ai servizi pubblici – questioni economiche sulle quali tornerò – ha suscitato malumori. Se errori nella successione delle misure prese e nelle decisioni politiche contingenti hanno peggiorato il disamore internazionale per l'Europa (è stato così, a giudicare dalla retorica politica sentita di recente con forme diverse da nord a sud), è il pegno da pagare per la via che si è imboccata. La visione di un'unità europea crescente che era nata a Ventotene e a Milano negli anni Quaranta è stata assecondata male da piani di salvataggio che non solo hanno precipitato milioni di cittadini in una miseria nera, ma hanno anche generato una divisione di cui si poteva far a meno tra tedeschi prepotenti, secondo i greci, e greci fannulloni, secondo i tedeschi.

L'analogia, spesso invocata, con i sacrifici dei tedeschi per unire le due Germanie è del tutto fuorviante. In parte perché i sacrifici coordinati dal cancelliere Kohl erano intelligenti e progettati bene, e soprattutto perché al momento tra i paesi europei non esiste il senso di unità nazionale che predisponeva i tedeschi ad accettarli. Inoltre ricadevano sulla parte ricca del paese dove il cancelliere era basato: questo fatto ha una qualità politica assai diversa dei tentativi di imporre una rigida austerità ai paesi più poveri dell'Europa meridionale da parte di leader politici che vivono in regioni più prospere.

Vengo ora alla crisi economica globale e agli sforzi europei per rimediare alla propria con l'austerità. La crisi che ha travolto il mondo nel 2008 non è nata in Europa, ma negli Stati Uniti e la recessione che ne è conseguita negli Stati Uniti ha avuto ripercussioni sul resto del mondo, in particolare in Europa. E' iniziata negli Stati Uniti, dove il settore finanziario si era comportato in modo estremamente irresponsabile e avventato. Il mondo aveva molte ragioni di essere infelice e scontento dell'economia statunitense, data l'eliminazione graduale - dai tempi del presidente Reagan – di quasi tutti i controlli sensati che regolamentavano le istituzioni finanziarie e le assicurazioni. Nel settore finanziario, i giocatori di serie A fecero un sacco di soldi, per se stessi innanzitutto, con esiti scintillanti ai quali corrispondevano prassi inaccettabili. Gli americani hanno causato la crisi, ma sono stati più veloci degli europei a temperarne l'intensità con uno stimolo fiscale. Contagiata dalla recessione, l'Europa adottò invece una filosofia immensamente contro-produttiva di redenzione attraverso l'austerità.

E' difficile vedere nell'austerità una soluzione economica assennata all'attuale malaise europeo. Non è neppure un buon mezzo per ridurre il deficit pubblico. Il pacchetto di provvedimenti richiesto dai leader finanziari è stato decisamente anti-crescita. Nella zona euro, la crescita è stata così tentennante e il prodotto interno lordo è calato così tanto che l'annuncio di una crescita zero sembra addirittura una "buona notizia". Sebbene la Gran Bretagna non sia sotto il potere finanziario dei leader della zona euro, ha scelto deliberatamente la strana filosofia della ripresa attraverso l'austerità, con lo stesso triste risultato. E' una politica fallimentare in Europa come lo è stata negli Stati Uniti negli anni Trenta e più recentemente in Giappone (una politica di contrazione che il primo ministro neo-eletto Shinzo Abe sta cercando di ribaltare).

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