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Questo articolo è stato pubblicato il 12 febbraio 2013 alle ore 08:34.

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Dopo il concerto dei Radiohead a Roma, un'amica mi ha scritto: «Ho visto più gente intenta a twittare quello che ascoltava invece di ascoltarlo e basta. C'è un problema». Il tema è noto: la possibilità di condividere ogni esperienza in tempo reale tramite i social network inquinerebbe la verginità dell'esperienza stessa. Invece di goderci il presente, un angolo della nostra mente è occupato dal pensiero di doverlo raccontare a terzi – e di doverlo fare ora. Ma è davvero un problema?

Nella sua forma più banale, è più che altro nostalgia per un passato supposto come idilliaco: i bei tempi in cui nessuno ci rompeva le scatole né noi le rompevamo ad altri, ed era possibile guardare il mare senza percepirlo come un soggetto di Instagram. Ma prima di demonizzare una tecnologia è sempre bene porre qualche cautela.

Di per sé, fare live-tweeting potrebbe essere semplicemente un altro modo di godere di un'esperienza: un modo più disattento e frammentario, e forse meno rispettoso: ma anche simpatico e innocuo. Eppure l'osservazione di fondo ha senso: che sia un bene o un male il nostro modo di rapportarci alla realtà sta cambiando, sta subendo una piccola metamorfosi narrativa, e il live-tweeting è un'ottima spia per comprendere tale fenomeno. Anche perché riguarda qualunque cosa: non solo un evento ma anche il cibo che stiamo mangiando, il tempo della nostra città, e persino operazioni chirurgiche. O il proprio aborto (vedi ihadanabortion.tumblr.com). Da questo punto di vista, se non c'è un problema, c'è quantomeno un bel nodo di questioni da sciogliere.

Twitter definisce il live-tweeting come l'utilizzo della piattaforma «per un periodo continuativo – dai venti minuti a qualche ora – con una sequenza di tweet focalizzati. L'argomento può essere un grande evento che tutti stanno seguendo (uno spettacolo in tv o una premiazione) o può essere un evento creato da voi stessi (una sessione di domande e risposte con i propri fan)». E aggiunge: «La cosa favolosa del live-tweeting è che è semplicissimo: non vi serve nient'altro che Twitter e un po' di tempo». Dietro questa formulazione ovvia si nasconde un suggerimento preciso: il live-tweeting è uno sballo perché alla portata di chiunque. E c'è qualcosa di irresistibile, a quanto pare, nel raccontare per brevi frammenti ciò che sta accadendo (anche se tutti lo stanno seguendo e sanno di cosa si tratta: o meglio, soprattutto se tutti sanno di cosa si tratta). Da questo punto di vista, la risposta alla domanda: «Perché?» resta la più ovvia: «Perché no?».

In un articolo apparso su The New Inquiry, Rob Horning rubrica questa piccola compulsione sotto il concetto di «microcelebrità», già elaborato da Clive Thompson su Wired qualche anno fa. Invece di essere considerate come mezzi per conversare, le piattaforme social vengono prese innanzitutto come palcoscenici per avere un pubblico – per quanto ridotto. Del resto l'identità digitale vive di relazioni ancora più di quella fisica: perché è più labile, è incorporea, e dunque per essere riconosciuta va continuamente sollecitata. Sono qui. Esisto. Sto guardando questo, facendo quest'altro. (E poi l'immediato bisogno di vedere quanti retweet e quante risposte ho avuto, parallelo al mio continuo scrutare la posta in arrivo nell'attesa che si materializzi un'e-mail). Il sé online, scrive Geert Lovink nel suo Networks Without a Cause (Polity, 2012), sarebbe dunque post-cosmetico. Apprezziamo i tweet inutili e le battute trite sui politici proprio perché rivelano la nostra umanità sotto profili freddi e design tutti uguali. Una visione un po' triste, ma realistica: è proprio nella banalità che emergono le persone per come sono.

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