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Questo articolo è stato pubblicato il 13 marzo 2013 alle ore 08:10.

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Buona parte di questi straordinari miglioramenti è dovuto a cambiamenti radicali nel mondo del commercio e delle spedizioni. Le merci viaggiano più veloci e più lontano. Le reti di distribuzione sono in permanente rivoluzione. I supermercati, le grandi catene, l'e-commerce: lo spazio degli intermediari si riduce, e per i clienti si libera potere d'acquisto. Quando il mercato è globale, tutto è più vicino. Internet ci consente di confrontare con un paio di clic prezzi e caratteristiche di ciò che desideriamo. L'espressione «sovranità del consumatore» non è mai stata più pregnante: è esperienza quotidiana.

È curioso, allora, che proprio in un'epoca nella quale il superfluo di ieri oggi è necessario ed economico, si diffonda il sentore di una nuova guerra di classe. La polemica contro l'1% più ricco trova il suo antesignano illustre nel sociologo Thorstein Veblen, l'autore de La teoria della classe agiata.

Per Veblen, raggiunto un certo livello di benessere economico, la spesa comincia a essere superflua, motivata sostanzialmente dalla fame di «status» dei ricchi. Sopra una certa soglia, il consumo diventa «vizioso», pura ostentazione di oggetti in buona sostanza inutili, che «sabota» la società, drenando risorse che avrebbero potuto finanziare investimenti produttivi. Si trattava, a suo dire, di un atavismo: l'agiatezza vistosa dei capitani degli affari rispondeva a quel bisogno di «status» che aveva motivato le vecchie aristocrazie, affezionate ai valori dell'onore e alla pratica dell'ozio.

Oggi che quella fra beni essenziali e voluttuari è una distinzione sempre più porosa e mobile, i critici della classe agiata la prendono dal lato dei redditi. La crisi finanziaria ha dato frecce nuove al loro arco, additando al pubblico ludibrio le stellari retribuzioni dei manager di Wall Street: ricchi come Creso, anche quelli che hanno portato le loro banche alle soglie del fallimento. Questa ricchezza andrebbe drasticamente redistribuita per via fiscale: Robert Reich è un grande sostenitore di aliquote dal 50% (sopra i 500mila dollari di reddito) al 70% (sopra i 15 milioni) per i super-ricchi.
Ma c'è un errore concettuale grande, che informa questo sovrapporre statistiche sulla distribuzione del reddito e nuove imposte. È l'idea che l'economia americana (o quella italiana, se è per quello) altro non sia che una gigantesca impresa, nella quale un singolo centro decisionale può decidere quante risorse impiegare per remunerare il capitale, quante attribuire al management, quante alla forza lavoro. La «distribuzione del reddito» assume la forma di un foglio Excel, dove le celle si spostano con un clic, e tuttavia non è che l'esito di una serie pressoché infinita di transazioni fra individui.
È il mercato a decidere delle nostre retribuzioni: nel senso, sono le scelte e gli scambi di ciascuno di noi. Il Will Smith che si fa beffe delle tasse di Hollande è strepitosamente ricco perché milioni di persone decidono di guardare i suoi film. Non l'ha "deciso" nessuno il suo reddito, perché nel suo stesso contrattare il cachet entrano in gioco fattori del tutto estranei al suo controllo. E come non c'è una classe agiata che difende se stessa, non contano i meriti e non pesano i bisogni. I Reich e i Kornbluth vorrebbero una «cabina di regia» per distribuire risorse come meglio gli pare. Peccato che il canovaccio della realtà si scriva da solo ogni giorno.

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