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Questo articolo è stato pubblicato il 10 maggio 2013 alle ore 10:56.

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Istanza numero 1: c'erano quei ragazzi americani dei primissimi anni '90, fuori dal coro, finiti alla deriva, lontano dalla strada maestra del consumismo gioioso di quegli anni. Vennero osservati con preoccupazione, studiati. In certi casi classificati burnout, in altri spediti dallo psicanalista, in altri abbandonati sulla zattera, al loro destino. Erano diversi da quelli che li avevano preceduti: non avevano voglia di fare granché, prediligevano la posizione distesa, brucavano nei mall e nei parcheggi, avevano scarsa concentrazione, obbiettivi fumosi, un discreto pessimismo e poca voglia di battersi. «Sono un perdente, perché non mi uccidi?», canticchiava Beck. Quei teenager non la vedevano bene per niente, si preoccupavano per le prospettive del loro futuro e, a giudicare da come sia andata a finire, facevano bene. Del resto, proprio per questa rassegnazione postmoderna, entrarono nella storia sociale del contemporaneo. Forse, soltanto, vedevano più lontano di quanto si credesse. E ciò che vedevano non diceva niente di buono. Istanza numero 2: c'è qualcuno che esce male da questa storia, ed è la televisione, intesa come totem. All'inizio dell'ultimo decennio del Novecento, si scommetteva sulla tv come definitiva divinità elettronica. Invece, pochi anni dopo, la tele è stata ridicolizzata da sciami d'informazioni digitali, delle quali al tempo a malapena si sospettava l'esistenza e per ripararsi dai quali ancora non s'è trovato lo spray giusto.

Prodotto l'incipit, cominciamo la storia-anniversario. Ritorno al futuro? Ma no, ciò che racconteremo è così remoto da provocare piuttosto tenerezza. È una vicenda lontana, non nel tempo, ma nel mondo delle idee che la generò.

Il quadro della situazione. Attacco dei Novanta, decennio negli Usa ricordato per motivi diversi da questi, come il ritorno degli happy times clintoniani, il progressivo boom di internet, la bolla finanziaria attorno al web coi relativi arricchimenti di nuovi, improbabili miliardari. Scenari eccitanti e improntati all'ottimismo, dopo che il decennio precedente, gli Ottanta reaganiani, avevano spinto sul pedale del neoindividualismo, del delirio consumistico, di un trionfo dell'effimero che lasciava poco spazio all'immaginazione e adombrava tracce di decadenza. Ecco, in questo scenario che, rivisto da qui, è disseminato di fattori di rischio per le psicologie più incerte, in alcune città del nuovo mondo, in particolare sulla disgregata West Coast degli sterminati exurbia – L.A., Portland, Seattle – prendeva caoticamente forma quello che sarebbe diventato uno stile inconsapevole, poi codificato artificiosamente, fino a costituire un fattore sociologico, una mania rappresentativa e un espediente commerciale.
I titolari erano tanti balbettanti ragazzini, allevati nel modo sbagliato, con troppi «più» e altrettanti «meno». Per tutti sarebbero diventati la Generazione X. Quella coi problemi, col tarlo dell'insicurezza e dell'insoddisfazione. All'epoca l'assoluzione per il mondo adulto fu automatica e, chissà perché, odiosamente, si cominciò a parlare di "sottocultura". Quella dell'apatia e della confusione. Quella che arretrava, invece d'avanzare come tutte le generazioni che l'avevano preceduta in America. Quella che, proprio per questo suo essere gracile e introversa, sembrò perfino terribilmente sexy. Il perfetto soggetto/oggetto per ridare fiato alla narratività americana, sotto forma di romanzi (Meno di Zero del vizioso enfant prodige Bret Easton Ellis, la commovente graphic novel Ghost World di Daniel Clowes, le tragedie di formazione Dio di illusioni di Donna Tartt e Le Vergini Suicide di Jeffrey Eugenides, le mollezze chic di Scimmie di Susan Minot, il barocco Ballo di Famiglia di David Leavitt, la ridefinizione metropolitana di Schiavi di New York di Tama Janovitz e perfino il passatista Le mille luci di New York, del sopravvissuto yuppie Jay McInerney) e anche di film (i manifesti pronti all'uso come Slacker di Richard Linklater, Clerks di Kevin Smith, Kids di Larry Clark, i contributi hollywoodiani come Breakfast Club di John Hughes e Fast Times at Ridgemont High di Amy Heckerling, le prove d'autore de Le Iene di Quentin Tarantino e Singles di Cameron Crowe). Ma è soprattutto con la musica che la GenX viene a patti nel modo giusto: la ridefinizione del modello di ruolo musicale è il capolavoro che sgorga spontaneo da questo gruppo anagrafico e geografico: la sintesi, approssimativa, andrà sotto l'etichetta grunge, suono dell'apatia e della disillusione, dell'anarchia e della non-adesione, di un'estetica incompresa e di una rinuncia alla partecipazione, del piccolo gruppo e del discorso sommesso, dello strozzato grido di dolore e della sensibilità estremizzata, del rifiuto di compromessi e della reinvenzione del business in chiave autarchica, indie e molto, molto alternativa. Il pregio del grunge, negli inizi sotterranei, è di sgocciolare in uno scenario collettivo ormai chiaro: si sta male, ci si sente deboli, si è compreso collettivamente che gli espedienti offerti dal sistema per anestetizzare il sentimento d'impotenza – si chiamassero shopping mall o tv-babysitter – erano povera cosa, al cospetto della vista d'una distesa di depressione americana. Trapiantare tutto ciò in forma di canzone, contando su chitarre elettriche economiche, giovani voci potenti e un campionario d'immaginazione condivisa, non era difficile. Capelli lunghi e camicie di flanella, anti-look super dimesso, atteggiamenti morbidi e tremebondi e un drappello di santi immolati alla causa fecero il resto, diventando veicolo d'esportazione nel mondo del fenomeno GenX. L'apostolo fu Kurt Cobain, ventenne disfunzionale dell'estremo Nord-Ovest provinciale, così tipico nei suoi tic di displacement, da essere istantaneamente compreso e amato, e quindi elevato a simbolo da coetanei e fratellini, a New York come a Roma. Un ragazzo estremo e poetico, un fringuello elettrico, che di denso aveva solo il vocione, un artista dell'istante e dell'immagine per quanto era il prodotto naturale di quello stato di cose, ne divenne l'istantanea vivente, pagando con la vita il costo dell'eterna venerazione.

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