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Questo articolo è stato pubblicato il 21 giugno 2013 alle ore 10:56.

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Superman vola basso, meglio ballare il Cha Cha Cha di Risi - Foto

Se volete un consiglio per il fine settimana, ballate il Cha Cha Cha. Quello di Marco Risi che ci offre un noir metropolitano e a suo modo politico, di un Luca Argentero che il suo detective Corso lo prende di peso dai libri dei grandi autori del genere – ma il nome è un omaggio al regista Salani, scomparso nel giugno del 2010 a neanche 49 anni e che come attore ci commosse ne Il muro di gomma -, di un Claudio Amendola che torna al cinema e fa il duro, il cinico, con battute a effetto che sembrano quasi dette in metrica e di una Eva Herzigova bellissima e dolente.

Nel cerchio chiuso e abitudinario del cinema italiano ci si addormenta sulle etichette: il cineasta che ha diretto Cha Cha Cha è passato dall'essere il figlio di Dino a farsi individuare come quello del cinema civile. Mery per sempre, 365 giorni all'alba, Il muro di gomma, Fortapasc bastano a tutti per mettergli quella divisa. Ma lui è uno che nelle armature non si fa imprigionare, così, almeno per chi scrive, il suo capolavoro è L'ultimo capodanno, feroce satira con venature horror di una borghesia corrotta e scorretta, di un mondo svuotato dall'apparenza. Più politico di tanti altri, ma non nel senso in cui molti credono.

Cha Cha Cha è un racconto che si incentra sulla Roma nera e bastarda, godereccia e festaiola, ma che potrebbe anche essere a Detroit. Argentero, ottimo anche sfregiato e decisamente in parte persino nella collutazione che affronta completamente nudo, infatti, potrebbe essere americano o scandinavo, tanto sono forti le suggestioni di un genere universale. Così come Eva Herzigova, sorprendentemente brava nel suo ruolo non facile, a volte ci porta via. C'è Amendola a ancorarci al luogo del film, determinante nella storia, fin da quei cani che sbranano un corpo vicino Fiumicino. Un'altalena d'emozioni, scene azzeccate e dialoghi riusciti quasi al limite dell'aforisma, questo film, che si fa perdonare anche qualche passaggio più debole di scrittura. Noi non siamo abituati al noir all'italiana, ma Risi ama le sfide. E l'ha vinta. Di sicuro questo non è successo, invece, a Zack Snyder.

Il suo L'uomo d'acciaio, reboot di Superman, inizia bene – soprattutto grazie a Kevin Costner e a un verboso Russell Crowe – ma poi precipita presto e pure male. Non accontenta i fedelissimi del supereroe: Henry Cavill ha poco carisma, ha in dote un personaggio invincibile ma non molto intelligente (non ha le minime capacità strategiche) e soprattutto che viola ogni regola del decano dei detentori di superpoteri: nelle sue lotte all'ultimo sangue, infatti, fa fuori, direttamente e indirettamente, migliaia di civili. Per uno che non strapperebbe un fiore dal suo gambo, è un po' troppo. Ma, soprattutto, è la noia a far da padrona: strano, perché Snyder nel pur fracassone 300 ci ha dimostrato di sapere che cos'è l'intrattenimento e in Watchmen quanto bene può raccontare l'emarginazione, il dolore e le difficoltà di uomini superiori. Ma qui le responsabilità più grandi ce le ha lo sceneggiatore Goyer, davvero inadeguato, e il supervisore Christopher Nolan, che (mal)tratta Clark Kent- Kal El come il suo primo Batman. Eppure i due non potrebbero essere più diversi. Più di due ore che confermano la maledizione post Reeves per la saga che viene da Krypton.

Arriva in sala anche Federico Zampaglione con Tulpa. Lo fa con una nuova sterzata del suo cinema: dopo la commedia "scura" Nero Bifamiliare e l'horror Shadow (ciò che di meglio il genere ha dato da almeno vent'anni, insieme ai film di Aja), arriva il giallo anni '70, con sfumature erotiche. Claudia Gerini è una manager sempre sul filo della tensione moderna della scalata al successo, tanto che ha bisogno del Tulpa, club privato in cui lasciarsi andare a tutti i propri istinti sessuali. L'opera non è riuscita, ma non cela il talento di Zampaglione, che volutamente ha cercato gli eccessi di Fulci, Bava e del primo Argento. Così, nonostante alcuni momenti troppo grotteschi del lungometraggio e una gestione della sceneggiatura e degli attori spesso non all'altezza, ci si porta a casa, comunque, scene da antologia: su tutte, quella iniziale. Da maestro. Si deve puntare sul musicista e regista romano, anche dopo il meno riuscito e squilibrato dei suoi film. Ha talento da vendere e a volte si innamora troppo delle sue visioni, perdendo di vista il resto.

Lo stesso non si può dire di Stoker: esagera Park Chan-Wook, ma solo nel continuare a raccontare sempre le stesse storie di psicosi, vendetta, relazioni familiari "sbagliate". Qui, in più, ha attori in cui non credi mai (Jacki Weaver esclusa) - solo alla fine, forse, Nicole Kidman entra in parte – e una storia che rende così prevedibile che aspetti i colpi di scena come una liberazione, sperando si arrivi presto alla fine.

Piacevole, ma senza entusiasmare troppo, infine, Dream Team di Olivier Dahan (presto sul set per raccontare la principessa Grace di Monaco), notevole Passioni e desideri di Fernando Mereilles, che ha in sceneggiatura il Peter Morgan di Frost/Nixon che cerca di imitare Schnitzler, con un certo profitto. Con un cast straordinario (Jude Law, Ben Foster, Rachel Weisz e Anthony Hopkins su tutti) saliamo su una giostra di storie, frasi, sentimenti e dolori che ci cattura. Certo l'opera vorrebbe essere arguta, sensibile e complessa, ma non di rado è solo complicata. Ma alla fine affascina e convince.

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