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Questo articolo è stato pubblicato il 21 agosto 2013 alle ore 08:36.

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(10) «Ciò che in letteratura chiamiamo punto di vista può corrispondere al concetto matematico di sistema di riferimento. DFW cerca di evadere dai confini del punto di vista mediante continue digressioni spaziali e temporali, oppure espandendo il testo attraverso l'uso delle note, e delle note nelle note. È così che si aprono continuamente dei crepacci da cui escono altre storie, quasi fosse una specie di oggetto frattale»
ROBERTO NATALINI Matematico, lavora presso l'Istituto "M. Picone" del Cnr. Il suo saggio David Foster Wallace and the Mathematics of Infinity è apparso nel volume A Companion to David Foster Wallace Studies, pubblicato nel marzo scorso da Palgrave Macmillan
(11) «Sono pronto a lasciare l'idea che la letteratura sia un'eterna divulgazione il cui sound è distorto dal desiderio d'impressionare il lettore. Dopo dieci anni di letture di Wallace non riesco più a trovare sincere queste dichiarazioni. Se la letteratura per te è una conversazione con l'Ineffabile, perché cercare di rendere a tutti i costi attraente il concetto? Perché il desiderio di essere ecumenico ti spinge a essere piacione, a usare Innominato, Dio, Cosmo, Campo Unificato, catessi psicanalitica e parole inventate come Roqoq'oqu? Wallace credeva che il lettore dovesse faticare, ma per rendergli accettabile la fatica trasformava ogni tema in un marshmallow compiaciuto. Come a chiedere scusa tutto il tempo di star usando le parole: ecco, ora farò assomigliare la parola "Dio" a un buffo scherzo ironico, ma serio. Basta. La lingua è andata nella direzione di Wallace: ora ogni cosa che diciamo deve avere la piacevolezza marshmallow della lingua cristiana, perennemente apologetica di Wallace. L'ironia hipster giustifica qualunque cosa con un sorriso, con un emoticon, con la foto di un gatto che sembra sorridere. Preghiera esaudita»
FRANCESCO PACIFICO Vive a Roma, scrittore e collaboratore di IL
(12) Che tu possa cavalcare felice e beato sul dorso del più maestoso eccetera
NdAIl prossimo 12 settembre saranno trascorsi cinque anni – un lustro – dalla morte del saggista e romanziere americano David Foster Wallace. Molti suoi lettori, come accade per i grandi traumi collettivi – vedi Twin Towers – ricordano dove si trovavano e che cosa stavano facendo il giorno della scomparsa. Su quel lutto inaspettato è stato anche scritto un libro. Una settimana dopo la morte, sul New York Times, com'è stato ripetuto fino alla ridondanza e all'antonomasia, Wallace venne riappellato «The best mind of his generation». Un altro scrittore americano, Bret Easton Ellis, disse invece che «chiunque lo giudichi un genio letterario dovrebbe essere incluso nel pantheon degli imbecilli». Può essere. Fu la moglie, Karen Green, a trovarlo impiccato alle 9 e mezza di sera nella loro casa di Claremont (California). Aveva 46 anni. Nel garage c'erano circa 200 pagine di un manoscritto che insieme ad altro materiale formava il suo terzo romanzo, uscito postumo col titolo Il re pallido.

L'Italia fu il primo Paese al mondo, nel 1997, a riconoscere il potenziale e il talento di DFW grazie alla casa editrice che ne acquistò i diritti. Il suo romanzo più celebrato, Infinite Jest, fu pubblicato in Italia nel 2000 e in Germania soltanto nel 2009. Una volta, in un'intervista a risposta multipla rilasciata per lettera, disse di aver letto e riletto Italo Calvino e che Calvino era il suo scrittore italiano preferito. Nell'estate del 2006, vincendo la sua fobia per l'aereo, venne in Italia e passò una settimana a Capri. Era la prima volta che usciva dagli Stati Uniti. Il mare oro e azzurro e la lirica, odorosa bellezza di Capri corrispondono pochissimo all'universo poetico di DFW; eppure, durante un talk con Antonio Monda, disse che la lingua italiana era per lui come una musica, per quanto «it doesn't stick in my brain» (e il collega e amico Jonathan Franzen, seduto tra il pubblico, per qualche ragione cambiò posizione sulla sedia, forse riaccavallò le gambe, e sorrise stupito, meravigliandosi ancora della mente e dei talenti comunicativi e linguistici di un amico). E inoltre: di Capri e di quel cibo organoletticamente così diverso dal cibo di Clermont, s'innamorò.

Amava la matematica e si divertiva ad inventare parole nuove, come quando in una lettera a Franzen scrisse: «Fiction for me is a conversation between me and and something that May Not Be Named - God, the Cosmos, The Unified Field, my own psychoanalitic catexies, Roqoq'oqu». Adoperava moltissimo le note, centinaia di note a piè di pagina che si aprivano come frattali. Aveva inciso sul braccio il nome di una vecchia fidanzata, poi cancellato e sostituito col nome Karen, evidenziato da una nota ad asterisco. Usava spesso la parola "eccetera".

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