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Questo articolo è stato pubblicato il 27 settembre 2013 alle ore 08:34.

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L'idea del talent show per scrittori a quanto pare è brutta. L'ho capito per converso, perché ogni volta che un'idea pare buona a me, significa che è una scemenza. Infatti la cosa del talent mi ha subito infervorato. Soprattutto per la reductio ad unum che comporta: finalmente cadrà la maschera di ridicola prosopopea che a chi scrive o gli appiccicano o si appiccica addosso da solo. E

infatti la notizia, a me gradita, dell'imminente messa in onda del programma, prevista per novembre e annunciata da un tweet in tono finto by the way del direttore di Raitre Andrea Vianello («Ah, dimenticavo. Da novembre su Raitre il primo talent per scrittori esordienti. Masterpiece. Presto le regole per partecipare #bestseller»)
è stata subito commentata con toni apocalittici. Il Fatto Quotidiano ha prontamente ammannito ai suoi lettori il distillato più puro del cliché del letterato maledetto (con tanto di lemuri), in un articolo dagli accenti piccati, il cui senso è più o meno questo: Vianello, facci capire, tu quasi ti dimenticavi di annunciarci la fine della letteratura? In esso, firmato dalla scrittrice Veronica Tomassini, pullulavano frasi di questa fatta: «La letteratura è un tempio, ci credo ancora, non bisogna violarlo, no no». «Non è spaventoso tutto ciò? La letteratura in pasto alle major». «La scrittura è un destino». «Temo un destino da fast food o da alimenti surgelati». «La scrittura compete ad [sic] un'anima chiamata memoria, una memoria lontana, inarrivabile, da consumare da soli, al massimo in compagnia di certi lemure [sic]; quella memoria non vuole essere addomesticata». È buffo che a detestare l'idea del talent siano proprio quegli scrittori che il talent sognerebbe di avere come partecipanti: «Pensi di aver scritto un'opera che cambierà le sorti della letteratura?», recita lo spot di reclutamento.

E chi se non un mitomane può ritenere di avere nel cassetto una cosa simile? E chi se non un mitomane che crede di avere nel cassetto un'opera simile può scandalizzarsi tanto per uno show televisivo sulla scrittura? Ci sono scrittori che pensano che, siccome scrivono, si collocano su un piano più alto di chi sbucinìa canzoni dentro a un microfono o fa salti a piedi uniti sopra a un palco: si possono tollerare talent show sulla musica, il canto, la danza, la recitazione, la cucina, e perfino gli sport di squadra (sì, ce ne fu anche uno sul calcio, tempo fa), ma non sulla scrittura: la letteratura no, no. Altrimenti poi che fine fa lo scrittore o l'aspirante tale? Quello che abita in un faro isolato dal mondo, e la notte si alza dal letto folgorato dalla musa, si prepara due napoletane di caffè Hag e scrive rapito dal demone fino alle prime luci dell'alba. Mica lo possiamo mandare in video uno così. La giacca con le toppe sui gomiti e le montature in tartaruga saranno telegeniche? Nel logoro immaginario collettivo la scrittura possiede una natura tale da non poter ammettere sue forme non illustri. C'è una specie di sei politico che sin dalla scuola si concede a chiunque scriva, non importa che cosa, non importa come: se scrivi, anzi se solo senti la pulsione di scrivere, sei un temperamento meditativo.

Un osservatore. Uno che "ha pensato" e ha qualcosa da dire. Stando a questa macchietta, come potrebbe la scrittura – purissima verbalizzazione del pensiero – tollerare di abbassarsi a intrattenimento? E che ci vuoi fare: ci sono arti che nascono figlie di buttana, e dunque se ne può fare uso meramente ricreativo, e arti che nascono figlie della gallina bianca, e di queste guai a farne mercimonio televisivo. Per dire: niente di cui indignarsi se mentre sto pesando la cucuzza al reparto ortofrutta, Radio Sidis mi mette in sottofondo la Quinta di Beethoven, no? Ma aspiranti scrittori in tv, no, dai, è sacrilego. La verità è che la levata di scudi contro il talent degli scrittori fa da valvola di spurgo per un pensiero che da sempre in Italia è sotteso a qualsiasi argomento riguardi l'intrattenimento puro: è il male assoluto. Infatti se uno vuole uscire un poco fuori tema, in Rete si trovano articoli tipo quello di Nicola Lagioia che in pratica assume un'ottica un po' veteromarxista per rimproverare a Maurizio Crozza di non essere Antonin Artaud. Cinque minuti di copertina a Ballarò che hanno il solo, evidente, unico scopo di farla un poco ridere a 'sta gente che lavora e non ride mai, spingono Lagioia a prendersi cinque pagine per dirmi che Crozza «è troppo simile nell'alfabeto scenografico a ciò che intende aggredire». Dicendo che Crozza non parla un linguaggio "altro", eversivo rispetto al regime che prende di mira, Lagioia solleva il problema dei problemi: quello dello stile.

Ma ne vale la pena? Mica è il monumento alle Fosse Ardeatine: è Crozza a Ballarò. E allora mi sono immaginato di martedì sera, sul divano, mentre sono davanti a Ballarò, col vestaglione di flanella della zia, che rutto la familiare di Peroni gelata, e per introdurre il dibattito della serata mi compare Artaud che si produce in una danza balinese. Oh mamma mia, costui possiede un alfabeto scenografico molto dissimile da ciò che intende aggredire, penserei io mentre estrapolo per sempre il tasto 3 dal mio telecomando e lo butto fuori dal balcone. Insomma, è una divagazione, ma per dire che davanti a qualcosa che può comodamente essere letto come un numero di intrattenimento puro l'intellettuale italiano si orienta su un'analisi concettuale che finga di ignorare quale fosse l'intento primario dell'intrattenitore (intrattenere) per poi accusare quest'ultimo di male assolvere una funzione che il suo testo non prevedeva (l'eversione). Proprio perché lo scenario generale della comicità televisiva italiana è quello dipinto da Lagioia, resta da capire chi e che cosa possa permettersi il lusso di intrattenere e basta. Nessuno, niente. Figuriamoci gli scrittori e i libri. E infatti l'Italia è l'unico Paese in cui la letteratura (così come il cinema) di consumo si preoccupa costantemente di apparire autoriale: il genere imperante è la gran minchiata, però dal risvolto pensoso. Evidentemente il cattolicesimo c'entra più del marxismo, e ci dev'essere un peccato originale a monte, un senso di colpa con cui lo scrittore italiano fa nascere le sue pagine, e che gli impedisce di scrivere storie che – pur in apparenza senza pretese – non contengano poi:

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