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Questo articolo è stato pubblicato il 27 settembre 2013 alle ore 08:34.

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1) un sostrato profondo;
2) un aspetto problematico e problematizzante;
3) una lingua che lasci intravedere abissi sotto la superficie e via recensendo.

Ed ecco la commedia brillante che però fa analisi sociale, il romanzo col portiere di notte che studia i filosofi classici in greco antico, il comandante, la cicogna, la morte buttana e tutte queste sociosostenibilità che hanno prima ostracizzato e poi ammazzato libri e film di consumo. Mettere al palo gli editori è difficile: quelli alla fine a vendere ci provano sempre (pure col talent ci provano), ma appena tirano fuori un Faletti è il tracollo della loro immagine presso i lettori forti (che poi "lettori forti" suona un poco come "poteri forti", quindi forse nemmeno i lettori forti esistono. Lettori forti dev'essere un nome in codice per dire scrittori, perché solo uno scrittore – o uno che fa un mestiere attinente ai libri – può leggere così forte come si suppone che legga un lettore forte). La domanda che il talent sollecita è perché allo scrivere vada associata sempre e comunque la letteratura. Coi film riusciamo a distinguere senza problemi tra Men in Black II e Il posto delle fragole. Eppure è sempre cinema, no? Però non ci disturba che uno sia fatto per i pop corn e l'altro abbia invece ambizioni più elevate. T

roviamo normale che le radio passino Lady Gaga e che per ascoltare Debussy invece si debba andare in un auditorium. È sempre musica, ma non ci disturba che sia concepita per scopi molto diversi. Coi libri non ci riusciamo: se Fabio Volo scrive un libro va giudicato con gli stessi parametri con cui si giudica Tolstoj. È più forte di noi: Crozza spara due minchiate a Ballarò e noi sospiriamo rimembrando il Don Chisciotte. Mettere tutti i libri sul piano della letteratura è un'operazione paradossale: è da cretini, ma ci fa sentire intelligenti. Non appena si tratta di libri, pensiamo subito a Shakespeare, e chi non è Shakespeare infanga il buon nome della letteratura. Perché? Boh. Forse perché da un lungo periodo viviamo nel dominio del pop, quello che mischia in un tutto indistinto l'alto col basso, i fumetti con Omero, e allora il solo modo di sentirsi colti è procedere all'opposto: se il pop fa diventare minchiate le cose serie, la reazione al pop tratterà le minchiate come se fossero cose serie. Così si finisce per bollare d'infamia l'intrattenimento. Al fatto che ci siano due gradi di profondità diversa dentro allo stesso mare, manco ci pensiamo: eppure il detto popolare recita che non si devono "ammiscare sauri e uope". E non perché i sauri siano buoni e le uope invece no, ma semplicemente perché si può avere voglia dell'uno come dell'altro: due pesci diversi, che uno sta vicino allo scoglio ed è buono fritto e l'altro vive sul fondo e te lo fai alla matalotta. Qua invece o sei buono per la zuppa o proprio non sei un pesce. E allora scrivi, scrittore, scrivi. Scrivi quello che vuoi, ma datti un tono. E non vendere tanto.

Stai nel tuo. Fatti conoscere da quelli che leggono seimila libri al mese, che in Italia sono sette persone, se vuoi ti do il numero e l'indirizzo. Ma evita con cura quelli che leggono poco. E a quelli che leggono solo sotto l'ombrellone quando sono in vacanza, poi, inibiscigli proprio l'acquisto. Perché se non fai così, poi finisce che l'editoria – intesa come mercato – comincia ad avere un senso. E poi che fine fanno tutti i piagnistei degli addetti ai lavori? Niente niente glieli vuoi levare? Quelli pensano che guadagnare sia consequenziale al mestiere che fanno: scrivo libri, quindi faccio cultura. E la cultura è cosa buona e giusta, no? Quindi i lettori la devono comprare. E quindi se non mi comprate è colpa vostra, che non leggete, brutte capre: leggete di più, forza. E sbrigatevi, che qua c'abbiamo un catalogo da trecento uscite l'anno. A farci caso, lo scrittore lamentoso non si lamenta di non essere riuscito a vendere il suo libro: lui nobilmente si lamenta che gli italiani non leggono. Fosse nato in Francia, ora sarebbe milionario.

Ma è di Calascibetta, poverino, e i lettori latitano. Mica è colpa sua e di come scrive. Mica del suo editore che non sa come si vende. E mica può imparare il francese e farsi pubblicare da Gallimard. La colpa è di chi non legge, è chiaro. Questi che non leggono andrebbero puniti: bisognerebbe costringerli a leggere le cose che si pubblicano. Al talent show lo scrittore dice no anche per un motivo più sottile e pernicioso: col talent potrebbe capitare che poi ci siano scrittori che vendono libri. E il lamento dell'editore è che i libri non si vendono. Se io libri non ne vendo, a te non ti pago. Tu ti lamenti che non ti pago (o non ti pago a sufficienza), ma almeno sei contento di essere in libreria. Se invece poi lui vende e tu non vendi che facciamo? Finisce che tu che non vendi vai a casa, e lui che vende invece va in libreria. E che siamo pazzi? Che fine fa la "cultura"? La "cultura" quando si parla di scrittori e libreria è l'argomento definitivo. Chi scrive e chi legge, partecipando entrambi di questa categoria ecumenica della cultura, sono crociati invincibili. E sono nemici giurati di quelli che non scrivono e non leggono: le bestie. Che, mischine, verranno uccise nella crociata della cultura senza manco sapere perché (sono bestie, che ne sanno delle crociate?). Per rientrare nella categoria della "cultura" basta pochissimo. Hai scritto? Sei arrivato in libreria? Allora hai fatto "cultura".

Per definizione. Ma con un distinguo fondamentale: il tuo libro non deve avere venduto niente. Se hai superato tot di copie, non hai fatto cultura, anzi, sei passato dall'altro lato della barricata, quello dei subumani, dei Moccia, dei Faletti, dei D'Avenia, e poi giù giù – in un'epurazione basata sul dato meramente quantitativo del rapporto tiratura/rese – dei Saviano, dei Bukowski, di tutti quegli autori che a un certo punto hanno conosciuto una forma anche vaga di successo, e a cui viene imputato il peccato capitale: essersi fatti comprare. E forse pure leggere. Perché a margine della polemica sul talent serpeggia questa schizofrenia: lo scrittore ha in uggia il mercato, ma bramerebbe essere corrisposto di giusta mercede per l'opera del suo ingegno. Il che ha pure un senso. Ma solo se lui, scrivendo, fa guadagnare qualcun altro. E pure tanto. Altrimenti perché ti si dovrebbe pagare, scusa? Perché a te piace scrivere? A me piace tanto fare la quasetta: pagatemi, per favore, altrimenti ricamerò su tutte le mie quasette che siete gente che non ama la cultura. L'idea di guadagnare scrivendo non può prescindere dall'intrattenimento. La bravura o l'arte c'entrano fino a un certo punto, nel senso che non c'entrano niente col mercato, ergo coi soldi. Un calciatore non guadagna milioni perché è bravo a giocare o perché è un artista del pallone. Guadagna milioni perché fa guadagnare milioni a chi lo paga milioni.

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