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Questo articolo è stato pubblicato il 25 novembre 2013 alle ore 08:18.

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Ho fatto un'indagine tra amici gourmet ma non addetti ai lavori. Quale ristorante preferite in Italia? Tutti, ma proprio tutti, mi hanno segnalato il Pescatore di Runate e Don Alfonso 1890 di Sant'Agata dei Due Golfi. Due dinastie della cucina, due locali molto belli, dove si assapora anche un'atmosfera di calore famigliare. È un po' quello che succede con la narrativa: l'epopea, la saga, il buon romanzo di solida fattura sono sempre quelli preferiti dai cosiddetti lettori forti ma non dai critici letterari. Con questa certezza, ho passato una giornata con i Santini, nel loro ristorante, studiando i modi e le tecniche con cui propongono ai loro ospiti tre piatti cardine della tradizione culinaria della campagna padana: i tortelli ripieni di zucca, amaretti, mostarda e parmigiano reggiano, serviti al burro fuso; il petto d'anatra in salsa all'aceto balsamico tradizionale con mostarda di frutta; le meringhe alle mandorle con pistacchi e zabaione caldo al Marsala. Il Ristorante dal Pescatore è in provincia di Mantova, sul limite di quella di Cremona. Campi su campi. Ci si arriva passando da Canneto sull'Oglio, dove c'è un'impressionante concentrazione di vivai di piante a foglia caduca. È una campagna lavorata e noiosa, che nessuno collegherebbe mai alla fantasia sentimentale e languida con cui i Gonzaga riempirono di bellezze la loro città. Basti pensare al Palazzo Te, che ai tempi in cui venne costruito e affrescato da Giulio Romano era principalmente la dimora dei loro cavalli. Usciti da Canneto, si raggiunge Runate, una frazione di 30 abitanti nel mezzo della riserva naturale del Parco dell'Oglio Sud, che vi invito a vedere dall'alto, con una mappa satellitare. Posti così infinitesimali te li immagini nel Midwest, e invece siamo a qualche decina di chilometri da autostrade, aeroporti, stazioni, industrie. Per i benestanti che vanno di fretta e vogliono saltare l'incomodo del viaggio in auto, i Santini hanno creato un'area di atterraggio alle spalle della loro acetaia, ricolma di botti di invecchiamento del balsamico. Non mancano un grande orto, una rappresentanza di anatre e oche, e un laghetto pieno di ninfee. La sala è tutta a vetrate e in qualsiasi stagione, anche quando non si mangia sotto il portico, si ha una sensazione concreta di contatto con l'eleganza fuori dal tempo dei giardini delle dimore di campagna, quelli dove ci si immagina leggere Balzac all'ombra di un cedro del Libano, pescando fichi da un cestino di vimini accanto alla sdraio. Bisognerebbe portarci il filosofo-urbanista Thierry Paquot, quello che ha coniato il mio motto esistenziale preferito: «Il lusso è tempo, spazio, silenzio».

A proposito di tempo: quanto ce ne vuole per servire un piatto di tortelli di zucca, che al Pescatore vengono non solo cucinati ma anche preparati al momento? Cronometro alla mano, per un tavolo da 6 passano 12 minuti dall'arrivo della comanda a quando i piatti sono pronti. Ecco come funziona: ogni mattina Giovanni prepara la pasta, sulla base della previsione di numero di clienti della giornata. Con 10 uova e 330 grammi di farina si produce sfoglia per 60/70 tortelli. In ogni piatto ne vanno 6. Quando arriva l'ordine, Giovanni prende la pasta dal frigo e la passa due o tre volte nella sfogliatrice, diminuendo ogni volta lo spessore (1 minuto). Taglia poi dei quadrati di circa 6 centimetri di lato, mette al centro un cilindro di ripieno, ripiega e comprime i bordi (6 secondi ciascuno). «I tortelli di zucca sono un piatto con diverse varianti, perché tipico di un'area abbastanza vasta, di circa 200 chilometri, da Ferrara a Cremona – spiega –. È un piatto rinascimentale, epoca in cui si valorizzavano equilibri di contrasti dolce-salato e la perfezione delle geometrie». Per il ripieno, Giovanni usa zucche da 4 o 5 chilogrammi della varietà americana. Alla polpa lessata aggiunge amaretti, mostarda d'anguria bianca, pangrattato, pepe, sale e chiodi di garofano. Infine il parmigiano. Per la cottura ci vogliono circa 5 minuti. I tortelli, scolati, vengono poi serviti su una base di parmigiano reggiano grattugiato, e coperti con altro parmigiano su cui viene versato il burro fuso caldo. Secondo Nadia, «i tortelli di zucca sono il piatto della felicità. E poi, diciamocelo, quanti piatti si possono inventare? In Italia, dove abbiamo il culto dei primi piatti, qualsiasi tipo di variazione deve scontrarsi col fatto che la pasta una volta cotta va condita in modo tempestivo. E deve arrivare calda, non scotta». Nel frattempo mi mostra il petto d'anatra che sta per cucinare. È già pepato e salato, e mentre le chiedo da che tipo di anatra provenga, non posso che pensare all'esilarante tormentone «Is the chicken local?», del serial Portlandia (cercatelo su youtube), parodia dei foodies americani, con le loro estenuanti indagini sull'origine dei piatti in menu. In questo caso, il petto proviene da un'anatra local di 2,5 chilogrammi, frollata per una settimana, e nutrita durante i suoi cinque mesi di vita a radicchio, anguria, insalata e cereali. Il petto viene adagiato (i verbi in cucina sono importanti, guai a dire un semplice «messo») dalla parte della pelle in un padellino col burro. Nei 4 o 5 minuti in cui rimane sul fuoco, il grasso fonde e protegge la carne. Poi lo si «lascia riposare» a parte, mentre nel padellino si aggiungono un rametto di rosmarino, del brandy e del vino bianco, che cuociono fino a far imbiondire il fondo grasso. Si filtra poi con un colino, e ne risulta una salsa morbida, deglassata, vagamente zuccherina. Nadia aggiunge un cucchiaino di aceto balsamico e lo fa restringere. Siamo all'impiattamento, parola orrenda che si sente continuamente in televisione e che per fortuna qui nessuno pronuncia (sono persone troppo per bene, questi Santini). Il petto d'anatra caldo viene affettato, messo nel piatto, coperto col fondo al balsamico. Accanto si pone un mazzetto di verbena, porro e maggiorana, del puré, e una chip di sedano rapa. Infine la mostarda di pere, mele e anguria bianca, che secondo Nadia ha la virtù di ridurre il tempo di digestione da 6 a 2 ore. E ora il dolce. Il più classico dei classici, ovviamente interpretato in versione alta cucina: meringhe alle mandorle con pistacchi e zabaione caldo al Marsala. Giovanni dice che va preparato al massimo un'ora prima di essere consumato. Con 10 uova si ottengono circa 6 porzioni. Si montano uova e zucchero, poi si incorpora «la frazione liquida» (gergo tecnico), cioè vino bianco – in questo caso Lugana – e Marsala secco. Con queste aggiunte, il composto precedentemente montato si smonta, e infine va cotto per una decina di minuti a bagnomaria, finché sbuffa come la polenta. Nel frattempo si prepara una mousse leggera, fatta di panna montata e crema di pistacchi di Bronte, e la si passa in freezer per pochi minuti. Le meringhe, sfornate poco prima, vengono poggiate sulla mousse, coperte con fettine di mandorle tostate e decorate con spirali di gianduia. Tutt'intorno, lo zabaione.

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