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Questo articolo è stato pubblicato il 20 dicembre 2013 alle ore 07:03.

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La sera dello scorso 22 novembre mi trovavo a cena in una trattoria bolognese. Non una trattoria bolognese per modo di dire, una di quelle sul Naviglio con le tovaglie a quadri macchiate apposta, ma una vera trattoria di Bologna, appena fuori le mura, Porta Santo Stefano, nei pressi del convento Antoniano, e stavo mangiando una lasagna autoctona con gli autori dello Zecchino d'Oro. Avevo da poco vinto lo zecchino d'argento – una moneta coricata in un vellutato portagioie, con su incisa una famigliola che canta – e il mio ingresso al ristorante era stato salutato con un applauso mite dagli autori storici, che ci andavano cauti perché nella finale dell'indomani il gradimento della giuria avrebbe potuto ribaltarsi.

Mentre controllavo compulsivamente la tasca della giacca – non per vedere se avevo ancora l'iPhone, ma per vedere se avevo ancora lo zecchino d'argento – gli autori hanno intimato a me e al mio compositore, forse per questioni anagrafiche, di accomodarci al tavolo dei bambini: un desco popolato da pischelli del pubblico con appiccicato al petto l'adesivo del telefono solidale per la donazione al Mozambico. Qualche cinico avrebbe potuto obiettare che una trasmissione poteva accollarsi solo una campagna tra l'Aids in Mozambico (Paese beneficiario della raccolta fondi), l'alluvione in Sardegna (alla quale si è dedicata una serata) e la guerra in Siria (evocata da un'ex bambina siriana cantante canzone pacifista).

Tuttavia, io, quella sera, a fine diretta, avevo abbracciato orde di bambini intonati, e per me non esisteva il buonismo, ma solo la bontà. Anche il fatto di essere stata sistemata nel tavolo dei piccoli, in quanto novellina, mi sembrava inizialmente accettabile. Per tutta le cena allungavamo il bicchiere verso il tavolo dei grandi per avere il vino, mentre da noi circolava solo Coca-cola. I grandi autori, alle nostre spalle, si dicevano l'un l'altro, ah, complimenti, tu sei quello del Coccodrillo come fa, un brindisi all'Ocarina, piacere, sono Il mambo dei pipistrelli, mentre noi giocavamo all'impiccato coi loro figli – che comunque avevano otto anni di esperienza zecchiniana più di noi. Io e il musicista eravamo così inebriati che solo alla quinta portata ci siamo chiesti se la cena fosse a carico dell'Antoniano. Il pensiero successivo è stato: ma chissà se l'Antoniano paga l'Imu, o vale come clero. Mi sono risposta – forse obnubilata dai coriandoli d'argento che sparano in studio durante la premiazione, e che ancora oggi mi trovo negli stivali – che (lapidatemi qui) mi pareva giusto, in fondo, che l'Antoniano non pagasse l'Imu. Dopo vari bicchieri di lambrusco, e un conto di 30 euro pro capite alla cassa, ahinoi, ci è finalmente partito l'embolo "casta", ovvero: ma non è che per gli "autori storici" la cena sarà pagata, e per noi no? Come l'albergo? Difatti, ogni sera udivamo tutti salutarsi con gran pacche sulle spalle e dire «ci vediamo nella hall», mentre noi prendevamo la nostra Opel parcheggiata in divieto e tornavamo a occupare la stamberga di periferia prenotata su Airbnb, rischiarata da lampada rossa, e cosparsa di cartine di sigaretta.

La deriva complottista era a un passo: ma non è che tutti ci fanno caldi sorrisi perché sanno che l'anno prossimo loro si ritroveranno qua a fregarsi le mani, mentre noi siamo solo una meteora? Un simpatico duo di dottorandi da piazzare al tavolo dei bimbi, per poi rispedirlo in strada a protestare per i fondi alla ricerca? La foglia di fico della casta? L'equivalente del ministro under 40? Meri avventori mordi-e-fuggi della grande torta dello Zecchino? Il convitato di pietra di quella cena, e di tutti i rustici pasti consumati al convitto dei frati, era infatti la Siae. Dialoghi smozzicati, sigarette gettate a metà sul marciapiede davanti al modesto convento che celava anni di ambizioni genitoriali e autoriali caricate sui visi incerati di bimbi che per il resto della vita avevano poi dovuto ammettere di avere «fatto lo Zecchino d'Oro». E la domanda di fondo era sempre quella: sì, ma quanto si guadagna da una canzone dello Zecchino? Dipende, una canzone normale della compilation che non viene ripresa da nessuno può fruttare sui 6mila euro (ma consideriamo che gli autori più abili ne portano 3 o 4 all'anno). Poi se d'estate diventi la sigla della baby dance di tutti i mini club mediterranei, strappando finalmente l'appalto ai tormentoni brasiliani, è un'altra storia. Se vinci, è un'altra cosa ancora. E se ti trasformi nelle nuove Tagliatelle di nonna Pina ovviamente fai il botto. Si tratta di "soldini", come ho sentito dire con un'espressione di una finezza da carabiniere a qualche autore un po' schivo. Oppure, di "bei soldi". Sì, ma bei soldi per un single di provincia che fa la spesa nel frigo dei genitori, o bei soldi per una famiglia milanese di quattro persone che parcheggia ai margini dall'Area C? Per un brano di buon successo, la cifra sputata dall'anonimo telefono senza fili è stata di 20mila euro. Ma sarà così? Difficile dirlo, dato che gli autori storici – i quali, a differenza nostra, non scattavano foto ai vecchi costumi del Piccolo Coro nelle teche, né a Pino Insegno che girava in accappatoio dietro le quinte – erano molto vaghi sul tema, e ci tenevano a far trapelare, con la dolcezza del vecchio de Il vecchio e il mare, che non ci sarebbe capitato mai più di mandare un provino artigianale e stonato che commuovesse il comitato artistico e ottenesse un arrangiamento d'eccezione nonché il favore di 20 bambini su 20 per 5 sere di fila.

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