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Questo articolo è stato pubblicato il 20 dicembre 2013 alle ore 07:03.

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Stavamo meglio quando stavamo peggio? La saggezza popolare, se fosse chiamata in tribunale a portare delle prove a suo favore, dovrebbe soccombere di fronte alla impressionante mole di evidenza che supporta la tesi contraria. Che è anche quella ovvia. Si stava peggio, quando si stava peggio. La narrazione della storia economica, in questi ultimi anni, si è focalizzata sul periodo della crisi, con la sua distruzione di ricchezza e di prospettive (soprattutto nel mondo occidentale).

In questo modo, però, si è persa di vista la big picture: la vicenda umana dalla Rivoluzione industriale in poi è stata una incredibile cavalcata verso l'accumulazione di capitale (finanziario, tecnologico, sociale e umano, non necessariamente in quest'ordine). Accumulazione che non è andata a favore di una ristretta élite, mentre la grande massa si arrabattava nella miseria. Se dovessimo descrivere due secoli e mezzo con una battuta diremmo, rubando le parole a David Friedman, che il capitalismo ha reso i ricchi più ricchi, e i poveri più ricchi.

La questione va guardata da tre prospettive differenti: la dinamica del Pil pro capite, della povertà e della disuguaglianza. La prima ci dice se e quanta ricchezza sia stata creata, tanto a livello globale quanto a livello di singolo Paese. La seconda risponde alla domanda se la ricchezza si sia vieppiù concentrata o se, invece, lo sviluppo economico sia andato a beneficio anche delle fasce più deboli della società. Infine, è importante interrogarsi sul divario tra il vertice e la base della piramide sociale, per intuire quali movimenti sociali e politici possano derivarne. Dire che reddito e qualità della vita siano migliorati, rispetto ai secoli andati, è ormai comune buonsenso. Lo storico Angus Maddison ha mostrato che il Pil pro capite medio globale è esploso da 467 "dollari internazionali del 1990" (un'ipotetica valuta costruita in modo tale da avere lo stesso potere d'acquisto di un dollaro nel 1990) a 7.614 nel 2008. Un modo suggestivo di esprimere questo fenomeno è attraverso i consumi di energia. Quale sia l'uovo e quale sia la gallina è complicato dirlo: diventando più ricchi, aumenta la nostra domanda di energia perché cresce il ventaglio di beni e servizi che vogliamo consumare. Contemporaneamente, lo sviluppo economico è reso possibile dal fatto che, grazie al progresso tecnologico, disponiamo di forme di energia sempre più flessibili nell'utilizzo, affidabili ed economiche. Sia come sia, l'energia che consumiamo è diretta a delegare alle macchine fatica che, altrimenti, dovrebbe essere svolta da esseri umani: dal lavoro nei campi alla produzione di manufatti o servizi. Considerata la quantità di lavoro che mediamente un essere umano può svolgere a mani nude, è come se, alla metà del secolo scorso, ciascun individuo sulla faccia della Terra potesse avvalersi del lavoro di 38 persone. All'inizio del nuovo millennio, ciascuno di noi aveva l'equivalente di cento "dipendenti".

Meno scontato è rilevare che, nonostante la crisi economica, il pianeta ha continuato a girare pure negli anni più recenti. Paesi come l'Italia hanno perso ricchezza, ma l'Italia non è il mondo né il suo ombelico. E, se è giusto interrogarci sui problemi di casa nostra, non possiamo ignorare che, mediamente, i redditi degli individui e la loro capacità di soddisfare i propri bisogni hanno continuato a crescere durante l'ultimo decennio. Il Pil medio globale pro capite era, nel 2001, pari a circa 6.500 dollari: in termini reali, nel 2011 aveva raggiunto i 7.625 dollari (+17 per cento al netto dell'inflazione). Tale movimento verso una ricchezza sempre maggiore – si perdoni l'apparente gioco di parole – è anche e soprattutto una fuga dalla povertà. A dispetto del significativo aumento della popolazione mondiale (2,5 miliardi nel 1950, 6 nel 2000, più di 7 oggi) il numero di coloro che vivono sotto la soglia di povertà (fissata convenzionalmente in corrispondenza di un reddito pari a 1,25 dollari al giorno) è andata calando con velocità e regolarità impressionanti. Tra il 1990 e il 2010 si è pressoché dimezzata, calando da oltre il 40 per cento a poco più del 20 per cento, e continua a decrescere. Proiettando inerzialmente le dinamiche in essere, si può immaginare che la povertà sia definitivamente sconfitta – scendendo attorno al 5 per cento – da qui al 2030 (da qui una recente copertina dell'Economist: "Towards the end of poverty"). Per tenere conto delle grandi incertezze che ovviamente circondano questo tipo di previsioni, la Brookings Institution ha costruito diversi scenari, più o meno ottimisti. Il risultato è, comunque, incoraggiante: nella peggiore delle ipotesi, il tasso di povertà scenderà comunque attorno al 15 per cento. Se le cose andranno molto bene, potrebbe addirittura calare nei dintorni dello zero.

Un aspetto importante – che emerge dalla lettura combinata dei dati sulla crescita economica e di quelli sull'arretramento della povertà – è che lo sviluppo delle diverse regioni del globo, seppure molto diseguale e guidato spesso da questioni specifiche delle varie nazioni, sembra confermare le ipotesi di convergenza. Vale a dire, molti Paesi poveri sono cresciuti a un ritmo più rapido rispetto alle aree più ricche, determinando un accorciamento della distanza, che pure rimane assai pronunciata. Purtroppo, altre regioni non hanno saputo dotarsi delle istituzioni necessarie a stimolare la crescita, ampliando così il gap che le divide sia dai Paesi più benestanti, sia dalla media globale. Per esempio, come evidenzia il World Wealth Report di Credit Suisse, tra il 2000 e il 2013 la ricchezza delle famiglie nel mondo è grossomodo raddoppiata. Se, però, è cresciuta dell'88 per cento in Nord America e di circa il 130 per cento in Europa (grazie soprattutto allo sviluppo di gran parte dell'ex Unione Sovietica), l'aumento è stato del 211 per cento in India e del 376 per cento in Cina. In America Latina e Africa il boom è stato meno clamoroso, ma comunque assai rilevante: circa il 160 per cento e poco meno del 150, rispettivamente. Lo stesso vale se guardiamo al periodo 2008-2013, coincidente con la crisi economica: a fronte di una stagnazione dell'Europa e dell'Asia-Pacifico, il tasso di crescita è stato prossimo al 50 per cento nelle Americhe, di poco inferiore in India e superiore al 60 in Cina. L'Africa, purtroppo, è rimasta sostanzialmente ferma.

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