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Questo articolo è stato pubblicato il 22 febbraio 2014 alle ore 09:30.

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La posizione giusta sul glamour è che è sbagliato. Sono costretto a dirlo: appartengo a due categorie sociali e di mercato che escono dalla fabbrica con "Impostazioni – Glamour: sbagliato". 1) Sono un intellettuale borghese italiano; 2) sono stato adolescente negli anni Novanta.

La seconda categoria ha per principali significanti i capelli sporchi di Kurt Cobain, l'acuto tamarro di Chris Cornell e la musica priva di fascino ma ricca di rabbia e moralità dei Pearl Jam. Il grunge portò, secondo il mercato e il mondo di MTV/Videomusic da cui la mia generazione è stata educata, il ritorno del rock no-nonsense sulla scena musicale e nel costume. L'aristocratica intensa sporcizia chitarristica di Sonic Youth, Pixies, Dinosaur Jr., che aveva tenuto in vita la controcultura americana negli anni Ottanta di tastiere, giacche argentate e sassofoni, arrivava nel mainstream grazie ai Nirvana. Era una musica tutta sostanza: bisognava rifiutare le apparenze. (Da grandi poi, leggendo le storie orali del punk e della new wave e della no wave avremmo scoperto che gli antenati rumorosi del grunge erano in realtà devotissimi all'estetica, alla scena, al glamour, alla superficie. Kim Gordon dei Sonic Youth fa la stilista e suona musica sperimentale alle sfilate di moda altrui. Ma la storia venne raccontata così: gli anni Novanta avevano sostanza perché ereditavano tutto il buono e il sostanziale della controcultura occidentale. Se ti ispiravi ai Clash non era perché erano stati dei gagà perfettamente vestiti e con una collezione di dischi raffinata, ma solo perché erano stati Giusti: Joe Strummer era un Che, ma Paul Simonon era l'uomo più elegante d'Inghilterra).

L'altra categoria cui appartengo, quella dell'intellettuale borghese italiano, ha tra i suoi principi l'idea che l'immagine è sovrastruttura e fumo negli occhi: l'intellettuale guarda attraverso la patina della società dello spettacolo, ne decostruisce a dovere i meccanismi, fa l'analisi e demistifica. Una dimostrazione recente è la reazione compatta di quasi tutti gli intellettuali che conosco contro La grande bellezza di Sorrentino: cosa sta cercando di fare, Sorrentino? Di crearsi una mistica? La grande bellezza è un film falso (io sono talmente pronto ad accettare questo punto di vista che ho preferito non vedere il film per evitare le dissonanze cognitive e rimanere fedele al mio demographic), che non racconta la vera Roma, che usa Servillo come passepartout, come la mozzarella nei piatti estivi; il film è confezionato per i turisti, può piacere solo a loro, è una cartolina, non contiene immagini forti.
Sorrentino, al di là del merito, è un regista italiano conosciuto all'estero. L'intellettuale borghese italiano vorrebbe essere sicuro al cento per cento che Sorrentino non sia un autore sbagliato prima di affidarlo alle sensibilità di altri Paesi europei o degli americani. Noi non ci dormiamo la notte all'idea che i nostri amici inglesi o americani escano emozionati da un film che in realtà… in realtà… non so neanche come spiegartelo, my friend, Sorrentino lavora di menzogna a un livello così profondo che… sai, The Great Beauty, ok, ma don't trust Sorrentino, vi supplico non fatelo diventare un mito.
L'intellettuale borghese italiano come me crede che parlando di Sorrentino stia parlando di film, di opere, ma non è così: la cosa che l'int. bor. it. non accetta è che esista un autore che affascina pubblici stranieri a cui non possiamo andare a dire: «Non fidatevi di lui, è un bignamino del cinema, non c'è un'idea…».

Credo che il tema, qui, più che il dovere di critica (come direbbero i suoi avversari), e più che l'invidia (come direbbero i suoi sostenitori), sia un caso di odio per il glamour: e come ho già detto, infatti, il glamour, secondo noi, è sbagliato.
Il glamour è quella semplificazione di uno stato di cose – compiuto in collaborazione da chi proietta la propria immagine e da chi si nutre dell'immagine proiettata – per cui, nel caso in questione, un certo numero di persone decide di vedere la storia di successo di Sorrentino nella maniera seguente: UN REGISTA RAFFINATO E GUASCONE HA EREDITATO I GENI DEI MAESTRI, FELLINI SOPRATTUTTO, E CI RIDÀ IL GUSTO DEL GRANDE CINEMA, CI FA SOGNARE, CI FA VEDERE UNA ROMA BELLISSIMA, E GLI INGLESI E GLI AMERICANI SI ESALTANO E CI FANNO SENTIRE DI NUOVO RELEVANT.
Il glamour funziona così, in maiuscoletto. Bisogna accettare questa versione semplificata, esagerata e priva di imperfezioni (come una foto di Gisele, come un cenno del capo di DiCaprio a Scorsese a una premiazione, come Clooney che sorride nello spot Nespresso, come Angelina che passa trafelata sul red carpet, come Capote che dà un ballo), per pensare di vivere in un mondo degno della nostra presenza e partecipazione – sia che noi siamo spettatori, sia che noi siamo chi proietta l'immagine glamourous.

Poi, c'è la critica: Sorrentino è davvero un erede di Fellini? Quella è davvero Roma? Se è una Roma sua e personale e idiosincratica, lo è in buona fede, lo è rispettosamente? Lo è artisticamente? La critica è fondamentale, ma forse prima della critica c'è il sogno: molti di noi vogliono credere di vivere in un mondo in cui escono bei film e si può ancora uscire dalle sale commossi ed esaltati e camminare per la città a tre centimetri da terra, e pensare alla vita guardando i Fori.
Esiste una possibilità di rispettare Sorrentino e la sua capacità di far sognare senza rinunciare al diritto di critica? Esiste un modo per concedergli il successo – e il glamour, la semplificazione di ritenerlo un divo, un eroe del cinema italiano –, e allo stesso tempo mantenere le nostre posizioni su come vadano rappresentati il centro di Roma e i tempi in cui viviamo?

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