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Questo articolo è stato pubblicato il 24 marzo 2014 alle ore 06:41.

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Cose che non c'erano nel 1976: le balconate di Santoro; centinaia di canali che per rubarsi mezzo punto percentuale di pubblico farebbero più o meno tutto; le telecamere che inseguivano intervistati che non avevano voglia d'essere tali.

Nel 1976 Paddy Chayefsky scrisse un film che s'intitolava Quinto potere e che contiene tutto il rapporto tra politica e tv del 2014. C'è il conduttore di un notiziario dallo share calante il cui esaurimento nervoso viene anabolizzato dalla notizia che stanno per sostituirlo, e che minaccia il suicidio in diretta. C'è quell'irresistibile combinazione d'invettiva ed esibizionismo, à la Beppe Grillo, che è l'invito al pubblico ad affacciarsi alla finestra e a urlare la propria esasperazione: «Sono incazzato nero, e tutto questo non lo accetterò più». Ci sono, naturalmente, i dati d'ascolto che a quel punto crescono. C'è la produttrice ambiziosa che mette sotto contratto un gruppo di terroristi ("L'esercito di liberazione ecumenica") per un reality intitolato L'ora di Mao Tse Tung. C'è il pubblico volubile che si annoia del conduttore che voleva suicidarsi e poi voleva fomentarli e ora è solo un anziano depresso. C'è la produttrice che ha un programma in crisi e dei terroristi sotto contratto, e assoldarli per uccidere in diretta quel vecchio brontolone risolverà i problemi di tutti. Aaron Sorkin ha detto che «nessuno che abbia preconizzato il futuro, neanche George Orwell, l'ha mai fatto con l'esattezza di Paddy Chayefsky quando ha scritto Quinto potere».

Cose che non c'erano nel 1999: i Tea Party; i movimenti Occupy; le centinaia di canali a competere, e se non ci sono abbastanza spunti per riempirli bisogna fare quella cosa da gergo delle pagine politiche italiane: alzare i toni.

Nel 1999 Aaron Sorkin cominciò a scrivere The West Wing. La serie andò in onda per sette anni sulla Nbc, e raccontava la Casa Bianca. C'era un presidente democratico idealizzato (alla fine dell'era Clinton, Jed Bartlet era del tutto disinteressato al sesso); dei repubblicani fondamentalmente perbene (quando avevano la possibilità di sostituirsi al Presidente che rinunciava ai poteri perché gli avevano rapito la figlia, neppure se ne approfittavano); un universo fatto del confronto dialettico tra buone ragioni, in cui lo staff di brillantissimi liberal ogni tanto ammutoliva di fronte agli impeccabili argomenti degli altri a favore delle armi o contro il matrimonio gay.

Ci piace pensare a The West Wing come alla più bella serie tv che abbia mai raccontato la politica, e probabilmente lo è, e ancora oggi la si guarda volentieri: come gli album di fotografie d'epoca, come un reperto splendidamente dialogato e recitato. Ma, se andasse in onda nel 2014, la metteremmo da parte per quando abbiamo finito di drogarci. Di farci qualunque dose disponibile di serie televisive il cui racconto della politica ha preso la sospensione dell'incredulità e l'ha buttata nel secchio dell'umido. Che rilanciano come lo faceva la rete televisiva in Quinto potere: alzando il livello dell'adrenalina.

La vita, faceva dire Woody Allen al proprio personaggio in Mariti e mogli, non imita l'arte: imita la peggiore televisione. In una puntata della prima stagione di The West Wing, il Presidente era a letto con l'influenza. Guardava la tv del pomeriggio. Dopo aver descritto «un conduttore che fomentava un gruppo di ragazze i cui fidanzati erano tutti stati a letto con le madri delle fidanzate, e poi facevano uscire i fidanzati e le coppie si accapigliavano lì, davanti a tutti», Jed Bartlet chiedeva al proprio responsabile della comunicazione di rassicurarlo: «Questa gente non vota, vero?».

Dalla descrizione era facile intuire che il Presidente avesse visto Jerry Springer, un C'è posta per te molto più aggressivo, in cui varia umanità renitente a risolvere in tv le proprie beghe veniva inseguita da una troupe con lo slogan «You can run but can't hide», che si potrebbe adattare in «Corri, tanto ti prendiamo». È di certo una coincidenza che, prima di diventare il massimo esempio della tv liquidata come "trash", Jerry Springer fosse un giornalista politico. È di certo una coincidenza che «You can run but you can't hide» sia la minaccia di Bush a Osama bin Laden. È di certo una coincidenza che il formato «troupe insegue intervistato renitente» sia stato traslato, nella tv italiana, in formula fissa da talk politico.

Nasce prima il populismo negli studi televisivi o quello nelle urne? Prima i candidati del Movimento Cinque Stelle o i lisergici opinionisti di Formigli? Prima il complottismo dei parlamentari o quello degli sceneggiatori di Homeland? La disputa tra uovo e gallina sarebbe stata risolta se l'altrimenti lucido Aaron Sorkin avesse fatto capire al suo Presidente quant'era stata illuminante quella convalescenza? Se, invece di fargli fare la moralina ai limiti del suffragio universale, l'avesse equipaggiato di una citazione da canzonetta? Avremmo una tv migliore – e quindi migliore sarebbe anche il mondo che la imita fuori dagli studi televisivi – se Jed Bartlet avesse visto i fedifraghi inseguiti dalla troupe di Jerry Springer, avesse capito dove stava andando l'elettorato nell'era della rappresentabilità, avesse citato Skunk Anansie: «Yes, it's fucking political»?

Scandal è un telefilm in onda il giovedì sulla Abc negli Stati Uniti, e da noi su Rai 3 (qui non lo guarda nessuno, ma su questo dettaglio torniamo tra poco). Ne sono protagonisti una tizia belloccia il cui lavoro, a Washington, è risolvere problemi, e il suo amante, il cui lavoro è fare il Presidente degli Stati Uniti. Insomma: Scandal è il The West Wing dell'era in cui le persone perbene non fanno più share, la prima serie di successo sulla Casa Bianca che non abbia paura di sembrare un tascabile d'appendice per massaie bisognose di colpi di scena – cioè: per l'elettorato del ventunesimo secolo.

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