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Questo articolo è stato pubblicato il 24 maggio 2014 alle ore 09:34.
L'ultima modifica è del 24 maggio 2014 alle ore 09:40.
L'era della confessione, quella in cui non c'è trauma infantile e dramma adulto che non si veda l'ora di dettagliare a sconosciuti per avere uno spazietto nei talk show e sui giornali, è anche l'era della paranoia sulla riservatezza. Gli storici, tentando invano di spiegarsi quest'epoca, s'interrogheranno su come sia possibile che l'edizione più esibizionista di quel reality chiamato Esistenza della razza umana sul pianeta Terra fosse anche l'edizione che aveva una cotta per il concetto di privacy.
Ho due amici che non sono iscritti a Facebook. Conoscerete anche voi qualcuno di questi individui con la bizzarra convinzione di stare facendo una qualche eroica resistenza all'invasore, un po' come quelli che negli anni Novanta giuravano che mai avrebbero ceduto al cellulare. Siccome quei due non sono né Guido Ceronetti né Terrence Malick, non vivono isolati dal mondo né si occupano solo di classici della letteratura e filosofi morti, spesso hanno curiosità su cose comunicate al mondo da qualcuno su qualche pagina di Facebook; io e tutte le altre persone normali (cioè: quelle dotate di un'iscrizione a Facebook) siamo quindi costrette a salvare, per inoltrarglieli, pezzi di un social network cui si rifiutano d'iscriversi.
Sarà capitato anche a voi: un giorno sbuffate e chiedete perché diavolo non si rendano autonomi: ci vogliono dieci secondi, ad aprirsi un account. A quel punto, immancabilmente, il mitomane della privacy dice: non voglio che sappiano i fatti miei.
Nell'universo del mitomane della privacy, l'iter non segue una logica. Non è «mi iscrivo a un servizio che vive della raccolta di informazioni e il servizio saprà le cose che gli dico, e non quelle che ho l'accortezza di non dirgli: sono adulto e in grado di controllare questo meccanismo». Per il mitomane della privacy, tu ti iscrivi a Facebook e Mark Zuckerberg manda due spie dei servizi segreti a rastrellare dai tuoi cassetti foto d'infanzia, itinerari di viaggio, lettere d'amore, e pubblica tutto sulla tua pagina. T'iscrivi a Facebook, e da quel momento qualcuno ti guarda. Come potrebbe non guardarti: tu sei interessante.
Il mitomane della privacy, va detto, non ha neppure tutti i torti. Non fosse mitomane – cioè: ignaro che chiunque lo spiasse morirebbe di noia – sarebbe un ragionevole individuo consapevole dei propri limiti. Come un alcolista che non organizzi una serata in enoteca. Perché è evidente che l'esibizionismo è una dipendenza, che la condivisione è una patologia, che la vita vissuta in pubblico è più difficile da gestire dell'eroina. Sì, puoi uscirne intero, ma devi essere Keith Richards.
L'obiezione del mitomane della privacy rispetto a Facebook ha un senso, e quel senso è: se ce l'hai lì, a disposizione, poi non riuscirai a non abusarne. Se c'è un'intera internet che potrebbe mettere dei like alle tue foto, alle tue vacanze, ai ristoranti in cui ceni, potrai mai resistere alla tentazione di comunicare dove ceni, dove vai, e quanto hai perfezionato il profilo migliore negli autoscatti? E, se pubblichi tutto di te, poi potrai ancora lagnarti che tutti sappiano tutto di te? (Certo che sì, sta scritto in Costituzione: l'Italia è una Repubblica fondata sull'inalienabile diritto alla lagna, specialmente alla lagna per eventi di cui siamo gli unici responsabili ma di cui non siamo disposti ad assumerci la responsabilità).
La privacy all'italiana è un'invenzione vieppiù ridicola. È quella per cui devi mettere cinquanta firme sotto qualunque modulo: se ti abboni a un giornale o chiedi la consegna a domicilio della spesa, dovrai «acconsentire al trattamento dei dati». Che nella lingua della privacy vuol dire: potete dare al fattorino il mio indirizzo, invece che lasciare che giri per la città urlando il mio nome e sperando che prima o poi m'affacci alla finestra.
La privacy all'italiana è il regno delle password superflue. Hai chiesto di ricevere la bolletta telefonica per email? Ti manderanno un link al quale leggerla se solo ti ricordi quella password cui servivano una maiuscola e due numeri; evidentemente, dire «voglio ricevere la bolletta a questo indirizzo email» non è sufficiente: la tua privacy dev'essere tutelata dai proditori attacchi che vuoi sferrarle semplificandoti la vita.
La privacy all'italiana è quella scena per cui, su Italo, arriva il controllore e tu stai facendo altro, quindi chiedi un attimo di pazienza per controllare il codice che ti hanno dato al momento della prenotazione e che dimostrerà che sì, hai pagato per stare seduto in quel posto su quella tratta. Siccome sul sito hai inserito anche il tuo cognome, il controllore a quel punto abbassa la voce. E, col tono di chi ti stia proponendo un'oscenità, col tono di chi dev'essersi sentito dire almeno una volta: «Come osa violare la mia privacy in questo modo, io la denunzio», ti dice che, se sei d'accordo, puoi anche dirgli il cognome e lui verificherà così la prenotazione, senza che ti affanni a cercare il codice. Ripete tre volte: «Se è d'accordo», neanche ti stesse chiedendo con quanta gente hai fatto sesso all'università. Vien voglia di rispondere: «Come si permette», di dare un senso a quest'eccesso di prudenza, di alimentare la mitomania. No, non posso proprio dire il mio cognome ad alta voce su un treno, sono un agente segreto. Vien voglia di essere di quelli abbastanza mitomani da aprirsi un account su Facebook con un nomignolo, perché mica si può comparire con nome e cognome, sarebbe compromettente, come spiegano con aria saputa quelli che speri sempre siano almeno del Sisde e invece poi vien fuori che vendono bibite all'ingrosso e proprio non si capisce che segreti debbano tutelare omettendo di presentarsi con nome e cognome.
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