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Questo articolo è stato pubblicato il 24 maggio 2014 alle ore 09:34.
L'ultima modifica è del 24 maggio 2014 alle ore 09:40.

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Quando, un paio di mesi fa, a un ufficiale della Guardia di finanza è stata confermata, in Cassazione, la condanna per aver parlato male di un collega su Facebook, nelle redazioni che dovevano pubblicare la notizia vibravano commenti pieni d'indignazione. Che ne è della privacy? Non c'è più nulla di riservato? Non si può neanche dare del figlio di buona donna a un collega sulla propria bacheca? La mia bacheca è casa mia, diamine. Quindi, questa è la prova che Zuckerberg ci guarda e fa la spia. Sa tutto di noi e va a riferire. Come i secchioni dispettosi alle elementari. Oppure, più plausibilmente e senza conoscere i dettagli della vicenda, nulla di ciò che viene messo per iscritto è riservato. Se tieni al segreto del tuo disprezzo per qualcuno, tientelo per te. Sennò poi ci tocca indignarci. Dire che non condividiamo il tuo ritenerci una massa di stronzi, ma lotteremo fino alla morte per difendere il tuo diritto a darci degli stronzi davanti a 4.237 dei tuoi più intimi amici, coi quali è giusto tu condivida la tua vita e le tue opinioni e le foto delle tue vacanze.
4.237 amici che manco conosci, naturalmente, ma della cui discrezione non c'è ragione di non fidarsi. Se trapela qualcosa, è senz'altro perché le multinazionali cattive ti spiano. Sono loro, Google, WhatsApp, Facebook, e pure l'Esselunga. Si sono messi d'accordo perché ci sia sempre qualcuno che ti guarda. E sono così beneducati da non venire mai a dirti che spettacolo noiosissimo tu sia. quasi tutte un po' tristi.

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