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Questo articolo è stato pubblicato il 14 giugno 2014 alle ore 10:13.

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Nel corso del tempo tutto l'elemento edonistico e aspirazionale dell'audio è sparito, l'eventualità di sedurre qualcuno per «come si sente la musica a casa tua» si è dimenticata, e l'impianto è diventato prima un elemento tecnico, come il condizionatore d'aria, e poi sempre di più una perdita di tempo per chi non è al passo coi tempi, per gli sfigati.
Dopo la morte di Steve Jobs, nel 2012 Neil Young raccontò che lui e il padre di Apple stavano lavorando a una nuova generazione di iPod capace di riprodurre audio ad alta risoluzione. A sentire Young, Steve Jobs a casa propria ascoltava vinili: una incongruenza che il profeta dell'audio piccolo, portatile, bianco, impalpabile e senza fili non poté smentire. Fatto sta che la responsabilità di come si è evoluto il mercato della musica è in buona parte sua.

Il mondo musicale promesso da Apple è prima di tutto comodo e pulito: il contenuto musicale diventa una questione secondaria, disponibile sempre nel negozio online, trasmesso wireless dal computer alle casse, diffuso negli ambienti della casa che si preferiscono, portato con sé comodamente e con discrezione. Si parla di casse perché nel frattempo, mentre l'iPod ridava vita al mercato dei Walkman, gli impianti sono progressivamente morti, spariti dalle case, sostituiti da dock dove incastonare un riproduttore per sentire tutto dai piccoli altoparlanti integrati. Nel frattempo il mondo dell'alta fedeltà, incapace di gareggiare in stile e visione con Apple o Spotify, si rifugiava in un angolo sempre più piccolo, elitario e infastidito, e la sua idea di alta risoluzione, il Super Audio CD di Sony, agonizzava.

Perché allora in questo contesto – dove i soldi si spendono in tablet e telefoni, le canzoni non valgono nulla, gli impianti non ci sono, la qualità non è un tema, la gente sembra avere con l'ascolto della musica il rapporto che ha con le utenze domestiche come luce e gas – c'è spazio per il nuovo sistema audio concepito da Neil Young? Perché al quadro generale mancano due outsider che negli ultimi anni hanno stupito tutti e riaperto ogni gioco: il vinile e le cuffie.
Il vinile era rimasto relegato a deejay puristi, nostalgici e audiofili, ma c'è stata un'onda di reazione tra gli appassionati della scena indipendente, orfani del gusto, delle copertine, di qualcosa di divertente o desiderabile legato alla musica.

Negli show americani alla Letterman si sono riviste le grandi copertine dei vinili nelle mani del conduttore alla scrivania, durante il lancio del numero musicale, prima che la telecamera si sposti a inquadrare il gruppo. La regina delle indipendenti, Rough Trade, ha aperto nell'autunno del 2013 un negozio gigantesco a Williamsburgh, il quartiere dei modaioli con barba e bici scattanti. Con il vinile si è tornati a divertirsi, discutere di musica, perdere del tempo, incistarsi nella scelta di giradischi e testine, convincere qualcuno a venire a casa ad ascoltarli per poi farci l'amore. Il vinile, insomma, è tornato di moda, è tornato a conferire figaggine a oggetti musicali e a chi li possiede. E questo, per quanto qualcuno possa scuotere la testa in nome di un'autenticità un po' penitenziale e catto-comunista, è fondamentale: la moda dà respiro a tutti i movimenti di massa, rivoluzioni comprese.

L'altro fenomeno che ha tolto la musica dal mondo delle commodity è il ritorno delle cuffie. Nel suo piano, Steve Jobs aveva trascurato un dettaglio: la gente spende mezzo stipendio per comprare un telefono, e ascolta la musica con delle schifezze bianche che valgono 1 $ e si sentono di peste. Beats, l'azienda fondata dal vecchio leone della discografia Jimmy Iovine insieme al rapper Dr. Dre, ha cominciato a vendere cuffie belle, desiderabili, care, e ha avuto un successo tale da risvegliare un settore che sonnecchiava, se non per Bose e la sua riduzione di rumore da aeroporto. Nel 2013 i ricavi di Beats sono arrivati a un miliardo e mezzo di dollari, e Apple ha infine annunciato l'acquisizione dell'azienda per 3 miliardi. È in questo contesto – ci siamo arrivati – che Neil Young ha presentato ad Austin, lo scorso 12 marzo, al festival South By Southwest, la propria piattaforma Pono.

La colletta su Kickstarter partita quella mattina ha raggiunto entro sera l'obiettivo di 800mila dollari, e nei successivi tre giorni ha toccato i 6 milioni di dollari. Pono, che in hawaiano significa più o meno «giusto e armonioso», è una piattaforma di vendita di canzoni ad alta definizione (24 bit e 192 Khz). Un video promozionale mostra personalità invitate da Young su un'auto d'epoca equipaggiata con audio Pono e intervistate dopo l'esperienza: gente come David Crosby, Norah Jones, Eddie Vedder, Stephen Stills, Rick Rubin, Tom Petty, Flea, Arcade Fire, Radiohead, Dave Grohl, Bruce Springsteen e molti altri. Elvis Costello ammette la comodità dell'mp3 ma chiosa: «È un po' come vedere una fotocopia della Monna Lisa».

I dischi oggi vengono registrati in digitale e analogico, ma quando diventano un master hanno sempre la qualità stellare che propone il Pono; il problema è quello che succede alle canzoni quando le si infila nella busta ristretta del cd, o in quella minuscola dell'mp3 (iTunes usa il formato AAC, migliore ma comunque molto compresso). Siti come HDTracks vendono già i dischi in alta risoluzione, ma parlano solo ai pochi impallinati audiofili. Il punto della questione non è, sia chiaro, la chiarezza o la fedeltà delle canzoni che si potranno riprodurre con il lettore Pono, una specie di Toblerone giallo o nero la cui estetica è piaciuta a pochi. Il punto è la vitalità, la goduria, la trasformazione del digitale in un veicolo di piacere e desiderio. Tant'è che lo stesso Neil Young ha inciso il nuovo album A Letter Home usando un Voice-o-Graph, la cosa meno hi-fi del mondo.

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