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Questo articolo è stato pubblicato il 17 giugno 2010 alle ore 14:15.
Energie rinnovabili, efficienza energetica, reti dei trasporti: basta menzionare tre soli tipi di intervento nelle infrastrutture materiali in Europa per identificare 1.400 miliardi di euro di fabbisogno finanziario nell'arco dei prossimi dieci anni. Gli investimenti in opere infrastrutturali smuovono da sempre cifre da capogiro: ma nel contesto della crisi attuale, la peggiore dalla seconda guerra mondiale tanto per l'economia quanto per la finanza, la disponibilità di fondi così ingenti da parte del settore pubblico e anche privato appare un traguardo irraggiungibile.
Gli investitori di lungo, lunghissimo periodo invece esistono e ci sono tuttora, ancor di più proprio per la crisi: sono investitori speciali, con una visione lontana, che vanno a caccia di rendimenti non elevatissimi e di rischi contenuti, che si focalizzano sull'economia reale, sulle utilities, le reti, le fonti energetiche. Sono i fondi sovrani ma anche i fondi pensione, le compagnie di assicurazione. E ancora: gli organismi come la Cassa depositi e prestiti italiana, la Kfw tedesca. E ancora: nuovi strumenti di raccolta come il primo fondo di private equity paneuropeo per le infrastrutture, "Marguerite", e Inframed per promuovere gli investimenti nei progetti infrastrutturali nell'area del mediterraneo.
È questo il tema della conferenza internazionale su «investimenti di lungo termine nell'era della globalizzazione» che si tiene oggi a Roma nella suggestiva Accademia dei Lincei. L'incontro, organizzato dal "Long term investors club" fondato da Cdp, Kfw, Bei e la francese Cdc, è un'occasione per discutere del grande tema del rilancio della crescita e delle forme più diverse di collaborazione tra fondi privati e fondi pubblici per la raccolta di finanziamenti per gli investimenti nelle infrastrutture. Un tema caldissimo proprio in una settimana in cui in Europa tiene banco l'avvio della società-veicolo Spv per la stabilizzazione dell'euro, che emetterà i primi e-bond (bond garantiti dagli stati europei) non però per le infrastrutture e la crescita ma per evitare che uno stato dell'eurozona sia costretto a ristrutturare il debito pubblico per problemi di rifinanziamento e di sbandamento dei conti pubblici.