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Questo articolo è stato pubblicato il 10 luglio 2010 alle ore 13:48.

La trasformazione dell'Islanda, nell'ultimo decennio, da nazione in buona salute che garantiva un tenore di vita decoroso ai suoi abitanti a paese preso in ostaggio dall'ideologia liberista e dal capitalismo corrotto, è uno dei grandi disastri economici di tutti i tempi.
Ma come per ogni disastro, dalle macerie si possono ricavare degli insegnamenti.
Il mese scorso ho partecipato a una conferenza internazionale in Lussemburgo, dal titolo «Disuguaglianza e status della classe media: insegnamenti dal Luxembourg Income Study», che analizzava la polarizzazione sempre più accentuata della distribuzione del reddito nei Paesi industriali.

Uno dei documenti che hanno attirato la mia attenzione, di Stefán Ólafsson and Arnaldur Sölvi Kristjánsson dell'Università d'Islanda, illustra come una manciata di operatori di mercato infatuati del credito sia riuscita, per costruire imperi finanziari di corto respiro fondati sul denaro facile, ad accumulare debiti enormi che ora dovranno essere rimborsati dai loro concittadini. Secondo stime recenti, ogni cittadino è indebitato per 30mila dollari a seguito delle perdite originate dal tracollo del settore bancario islandese nel 2008.

Nello specifico, Ólafsson e Kristjánsson dimostrano che i benefici della bolla finanziaria islandese del 2007 sono confluiti, nella quasi totalità, nelle tasche di una piccola minoranza. Ad esempio hanno scoperto che il reddito complessivo controllato dall'1 per cento più ricco della popolazione è cresciuto dal 6 per cento complessivo del 2000 al 20 per cento del 2007, nel momento di massima espansione della bolla.

Nulla di particolarmente sorprendente, ma c'è una curiosa coda a questa storia.
A differenza di altre nazioni periferiche dell'Europa sull'orlo del baratro – Paesi dove Governi disperati si sono convinti che in una situazione del genere servono austerità e misure deflattive – l'Islanda aveva accumulato una tale quantità di debito nel momento in cui è scoppiata la bolla, nel 2008, che percorrere la strada dell'ortodossia finanziaria era fuori discussione.

Invece, dopo il collasso delle tre banche principali, il Governo islandese ha applicato una massiccia svalutazione della sua moneta e ha imposto controlli sui capitali, tra cui restrizioni sulle transazioni in valuta estera. Ed è successa una cosa strana: nonostante sia opinione generale che quella islandese è la più grave crisi finanziaria della storia, la sua punizione in cui è incorso il piccolo Paese scandinavo è stata molto meno severa di quella di altre nazioni impantanate nella recessione.

Confrontiamo la situazione dell'Islanda con quella della Lettonia, dell'Irlanda e dell'Estonia, ad esempio. Il prodotto interno lordo dell'Islanda dal quarto trimestre del 2007 si è ridotto molto meno di quello di queste altre nazioni, dove impazzano tagli alla spesa e sacrifici. E anche se dal 2007 in poi i livelli occupazionali in Islanda sono scesi, il calo non è stato paragonabile a quello sperimentato dall'austericissima Lettonia, che ha tagliato a trecentosessanta gradi.

La morale sembra essere che se proprio bisogna avere una crisi, è meglio che sia una crisi gravissima. Altrimenti finisci per accogliere i consigli di persone convinte che la cura per il tuo male siano altre sofferenze. (Traduzione di Fabio Galimberti)

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