Storia dell'articolo
Chiudi
Questo articolo è stato pubblicato il 17 luglio 2010 alle ore 08:05.
ROMA - Ipotesi sciagurata, strumentale, comunque «inaccettabile» quella dei tre ministri dell'Ambiente di Francia, Germania Inghilterra di elevare dal 20 al 30% l'obbligo di riduzione della CO2 entro il 2020 in tutti gli Stati dell'Unione. A fare muro è, e sarà, il nostro ministro dell'Ambiente Stefania Prestigiacomo. Decisa a circostanziare con numeri e cifre la linea già opposta ad ipotesi di questo tipo.
«L'accordo sottoscritto in Europa è molto chiaro: il passaggio dal 20 al 30% può essere studiato solo in caso di un accordo globale sul clima che coinvolga tutto il pianeta. Qualunque altra iniziativa sarebbe inefficace, e non solo perché gli obiettivi europei sono comunque destinati ad essere ininfluenti su scala planetaria. Dietro la proposta dei tre ministri c'è i realtà una mossa tattica per accreditarsi come i paladini del clima più che un'iniziativa che può realmente concretizzarsi».
«Come si fa – prosegue il ministro – a dire che il passaggio al 30% comporterà un vantaggio in termini di competitività per il sistema delle imprese, anche italiane? Non si capisce su cosa si fondi questa tesi dal momento che gli Stati Uniti non faranno altrettanto. Né farà altrettanto, ad esempio, il Giappone. E come si fa a sostenere che la Green economy ne avrebbe uno slancio quando per molti paesi la crescita dal 20 al 30% avrebbe un impatto comunque devastante in termini di costi per l'intero sistema industriale».
Ma che dire del sospetto, ancor più duro che avanza più di un osservatore. E cioè che sotto ci sia un tentativo di speculazione all'interno la stessa comunità europea. Elevando i limiti ci guadagnerebbero proprio loro, in termini di competitività, rispetto agli altri paesi europei. Specie la Germania che parte favorita nella lotta alle emissioni e che scontando la base di partenza assai più favorevole che le è stata assegnata avrebbe il 30%, o addirittura il 40% di riduzione della sua Co2 già alla portata.
«Questo conferma – osserva il ministro – il vizio di base del protocollo di Kyoto in Europa. Ovvero che i criteri di applicazione sono davvero iniqui. Direi che questo dibattito deve essere semmai l'occasione di rilanciare la richiesta di una revisione di questi criteri. Ed è quel che faremo».