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Economia Aziende

L'etichetta non basta per il made in

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Questo articolo è stato pubblicato il 18 luglio 2010 alle ore 08:08.


Oltre al danno, potrebbe arrivare anche la beffa. Vito Artioli, 74enne presidente dell'Anci, l'Associazione nazionale degli imprenditori calzaturieri, storce il naso ed è assai scettico sul passaggio a Bruxelles della legge Reguzzoni-Versace sul made in Italy. «Siamo a rischio bocciatura – precisa il presidente – ma potremmo anche dover pagare una grossa penale. E questo non ci farebbe certo piacere».
Artioli parla diretto, senza filtri: «Prima di varare la legge e di portarla in Commissione europea, dovevamo affinarla e migliorarla. Riflettendoci sopra un po' di più». E aggiunge: «La nostra capacità competitiva sta nell'essere fedeli alla tradizione e alla cultura italiana e questo non vale solo per le calzature, ma per la moda, l'alimentare, l'arredo-design. L'etichettatura non potrà che dare ulteriore prestigio, rendendo più appetibile acquistare italiano. All'estero ci invidiano in tutto: per come mangiamo, ci vestiamo o arrediamo le nostre case». «Eppure – continua – se vogliamo regolamentare un prodotto, e non la sua importazione, allora dobbiamo garantire che la parte preponderante della lavorazione sia effettivamente fatta in Italia».
Oggi il testo riconosce quattro fasi che, per il calzaturiero sono: concia, lavorazione della tomaia, assemblaggio e rifinizione. In teoria, per l'etichettatura, basterebbe svolgerne in Italia almeno due. Artioli, però, provoca: «Ma se questi due passaggi fossero solo il primo e l'ultimo, che potrebbe consistere anche solo nel confezionamento, che razza di made in Italy sarebbe?»
La soluzione che il presidente Anci propone è, dunque, quella di rendere almeno una fase obbligatoria, e per il calzaturiero dovrebbe essere «indiscutibilmente la terza», quella della composizione della scarpa, ovvero dell'assemblaggio e costruzione. «Con questa indicazione – sottolinea – la legge, tra l'altro, non sarebbe a rischio bocciatura dall'Ue».
Nella peggiore delle ipotesi, tuttavia, anche lo stesso marchio «made in Italy», pur regolamentato, potrebbe essere contraffatto. E anche qui Artioli prospetta una via d'uscita. «Non basta una semplice etichetta staccabile – dice – serve un marchio indelebile; e anche questo va definito per legge. Così come le caratteristiche igieniche del prodotto e l'uso di materiali che non provocano allergie o malattie».

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Accanto e parallelamente alla normativa, spiega però il presidente, va «portata avanti, con forza e rigore, anche la lotta alla contraffazione».
Ma sarà efficace qualche multa in spiaggia a delle sfortunate clienti straniere? Per Artioli è proprio il consumatore il bersaglio da colpire in questa battaglia; però «con continuità e senza sconti». «La lotta alla contraffazione – precisa con fermezza - ha bisogno di forti deterrenti proprio all'acquisto».
Quanto ai dazi che continuano ad «appesantire se non aggravare l'export» soprattutto verso i Paesi emergenti e le nuove economie (+35% in Brasile l'esborso per il settore del calzaturiero secondo l'Anci), il presidente boccia i «patti globali unilaterali» e osserva: «Credo sia il momento di spingere su accordi bilaterali tra Paesi per creare zone di libero scambio».
Sulla competitività dei prodotti, anche in termini di prezzo, la risposta è immediata: «È vero che oggi il made in Italy coincide con l'alto di gamma. Ma vendiamo qualità e ci vogliamo confrontare solo su questa. Ogni altra partita sarà persa in partenza perché in Italia abbiamo un costo Paese, intendo welfare e lavoro, che altrove, vedi Cina, non c'è».
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