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Economia Gli economisti

All'industria serve una mano (pubblica)

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Questo articolo è stato pubblicato il 30 luglio 2010 alle ore 09:49.

Il premier britannico Gordon Brown la promuove come strumento per la creazione di posti di lavoro altamente qualificati. Il presidente francese Nicolas Sarkozy parla di usarla per conservare in Francia i livelli occupazionali del settore manifatturiero. L'economista capo della Banca mondiale, Justin Lin, la sostiene apertamente per accelerare il cambiamento strutturale nelle nazioni in via di sviluppo. La McKinsey consiglia i governi su come applicarla nel modo giusto.
La politica industriale è tornata. In realtà, non è mai uscita di moda. Anche se gli economisti infatuati del Washington Consensus neoliberista l'avevano messa al bando, le economie di maggior successo hanno sempre fatto affidamento su politiche pubbliche mirate a favorire la crescita accelerando la trasformazione strutturale.
La Cina è un caso esemplare. Lo straordinario successo manifatturiero del Celeste Impero poggia in buona parte sull'assistenza pubblica alle nuove industrie. Le imprese di proprietà statale hanno agito da incubatrici di competenze tecniche e talento manageriale. Le norme sulla difesa dei prodotti nazionali hanno generato industrie floride che riforniscono l'industria dell'automobile e dell'elettronica. I generosi incentivi all'esportazione hanno aiutato le aziende a farsi strada sui competitivi mercati globali.
Il Cile, spesso raffigurato come un paradiso del libero mercato, è un altro esempio in tal senso. L'uva cilena ha conquistato i mercati mondiali grazie alla ricerca finanziata dallo stato. I prodotti forestali hanno ricevuto ingenti sovvenzioni. E la florida industria del salmone è una creazione di Fundación Chile, un fondo d'investimenti di rischio semipubblico.
Ma quando si parla di politica industriale, sono gli Stati Uniti i primi della classe. E questo è un paradosso, considerando che l'espressione "politica industriale" nello scenario politico americano ha il valore di un anatema, usato quasi esclusivamente per intimidire gli avversari politici accusandoli di avere una visione stalinista dell'economia.
Eppure gli Stati Uniti devono buona parte della loro capacità d'innovazione al supporto pubblico. Come spiega Josh Lerner, dell'Harvard Business School, nel suo libro Boulevard of broken dreams, gli appalti del dipartimento della Difesa hanno giocato un ruolo di stimolo fondamentale nella crescita iniziale della Silicon Valley. Internet, forse l'innovazione più importante della nostra epoca, si è sviluppata da un progetto del dipartimento della Difesa avviato nel 1969.

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E la passione americana per la politica industriale non è solo qualcosa del passato. Oggi il governo federale statunitense è di gran lunga il maggior venture capitalist del pianeta. Secondo il Wall Street Journal, solo il dipartimento dell'Energia ha in programma di spendere più di 40 miliardi di dollari, sotto forma di prestiti e sovvenzioni, per incoraggiare le società private a sviluppare tecnologie verdi come auto elettriche, nuovi tipi di batterie, turbine eoliche e pannelli solari. Nei primi tre trimestri del 2009, le società d'investimento di rischio private, sommate insieme, hanno investito in questo settore meno di 3 miliardi di dollari contro i 13 miliardi del dipartimento dell'Energia.
La svolta verso la politica industriale, dunque, è un gradito riconoscimento di quello che gli analisti più accorti della crescita economica hanno sempre saputo: per riuscire a sviluppare industrie nuove, spesso serve una spintarella da parte dello stato. Questa spintarella può assumere la forma di sussidi, prestiti, infrastrutture e forme di supporto di altro tipo. Ma se grattate la superficie di qualunque nuova industria di successo, in qualunque parte del mondo, molto probabilmente dietro vi troverete l'assistenza pubblica.
Il vero problema della politica industriale non è se praticarla o non praticarla, ma come praticarla. Ci sono tre princìpi importanti da tenere a mente.
Il primo è che la politica industriale non è un elenco di politiche specifiche, ma uno stato della mente. Quelli che riescono a metterla in pratica con successo sono consapevoli che è più importante creare un clima di collaborazione fra il governo e il settore privato che fornire incentivi finanziari. La collaborazione, attraverso comitati consultivi, forum aziende-fornitori, servizi di consulenza agli investimenti, tavole rotonde di settore e fondi di capitale di rischio misti pubblico-privato, punta a produrre informazioni sulle opportunità d'investimento e i colli di bottiglia. Per fare questo serve un governo radicato nel settore privato, ma non intrecciato a esso.
Il secondo è che la politica industriale deve usare sia il bastone sia la carota. Considerando i rischi e il divario fra benefici sociali e benefici privati, un requisito fondamentale dell'innovazione è il profitto, cioè rendimenti superiori a quelli che forniscono i mercati competitivi. È per questo che tutti i paesi hanno un sistema di brevetti. Ma gli incentivi senza limite di tempo hanno i loro costi: possono far crescere i prezzi al consumo e imbottigliare le risorse in attività improduttive. È per questo che i brevetti hanno una scadenza. Lo stesso principio dev'essere applicato a tutti gli sforzi delle istituzioni pubbliche per generare nuove industrie: gli incentivi pubblici devono essere temporanei e vincolati ai risultati.
Il terzo è che chi pratica la politica industriale deve tenere in mente che il suo scopo è servire la società nel suo insieme, non i burocrati che l'amministrano o le imprese che ricevono gli incentivi. Per cautelarsi dagli abusi e rimanere indipendente, la politica industriale dev'essere condotta in modo pubblico e trasparente e le sue procedure devono essere aperte sia a chi è già sul mercato sia agli esordienti.
L'accusa tipica rivolta alla politica industriale è che non può essere il governo a scegliere chi vince e chi perde. Ovvio, ma non è importante. Una politica industriale efficace non dipende dall'abilità di scegliere chi vince, ma dalla capacità di lasciare chi perde al proprio destino, e questo è un requisito molto più difficile da soddisfare. A causa dell'incertezza, anche le misure migliori possono sfociare in errori. Il segreto, per i governi, sta nel riconoscere questi errori e revocare gli aiuti prima che diventino troppo onerosi.
Thomas Watson, il fondatore dell'Ibm, disse una volta: «Se vuoi aver successo, aumenta il tuo tasso di errori». Un governo che non fa errori nel promuovere l'industria è un governo che fa l'errore più grande: quello di non provarci abbastanza.
(Traduzione di Fabio Galimberti)© Project Syndicate, 2010

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