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Economia Gli economisti

Pianificando la prossima crisi

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Questo articolo è stato pubblicato il 30 luglio 2010 alle ore 09:51.


WASHINGTON — L’opinione pubblica informata è profondamente divisa su come andranno i prossimi 12 mesi per l’economia globale. Chi è più focalizzato sui mercati emergenti enfatizza una crescita accelerata, con previsioni fino al 5% su scala mondiale. Altri, preoccupati per il contesto europeo e statunitense, rimangono pessimisti e danno la crescita al 4%; tra questi alcuni vedono in prospettiva una seconda recessione.

Si tratta di un dibattito interessante, che però manca l’obiettivo principale. In risposta alla crisi del 2007-2009, i governi della maggior parte dei paesi industrializzati hanno avviato i più consistenti piani di salvataggio mai visti a beneficio dei grandi istituti finanziari. Ovviamente non è politicamente corretto definirli piani di salvataggio, l’espressione preferita dei policy maker è sostegno alla liquidità o protezione sistemica. Ma si tratta della stessa operazione; alla resa dei conti i governi più potenti al mondo (almeno sulla carta) hanno messo in secondo piano le necessità e la volontà delle persone che avevano prestato i soldi alle grandi banche.

In qualsiasi circostanza, la logica si è rivelata impeccabile. Ad esempio, se gli USA non avessero dato un sostegno incondizionato alla Citigroup nel 2008 (sotto la presidenza di George W. Bush) e nel 2009 (sotto la presidenza di Barack Obama), l’inevitabile crollo finanziario avrebbe aggravato la recessione e la disoccupazione in tutto il mondo. Allo stesso modo, se l’eurozona non si fosse mobilitata negli ultimi mesi, con l’aiuto del Fondo Monetario Internazionale, a sostegno della Grecia e dei suoi creditori, ci saremmo senza dubbio trovati di fronte ad una più profonda difficoltà finanziaria in Europa e forse anche in altre zone.

In effetti, i governi e i principali istituti finanziari di Stati Uniti ed Europa hanno fatto a turno la figura del coniglio. Da un lato i governi si sono inizialmente rifiutati di attuare dei piani di salvataggio, mentre dall’altro le banche hanno iniziato a minacciare una seconda grande depressione in assenza dell’aiuto. Dopo varie riflessioni sulla prospettiva, i governi sono sempre arrivati a cedere.

I creditori sono stati protetti, mentre le perdite dei settori finanziari sono state trasferite ai governi nazionali (come nel caso dell’Irlanda) o alla Banca Centrale Europea (come nel caso della Grecia). In altre parti (come gli Stati Uniti), le perdite sono state sanate tramite regolamentazioni indulgenti (è bastato, ad esempio, girare lo sguardo mentre le banche ricostituivano il capitale contrattando sui titoli).

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Ed ha funzionato. Infatti stiamo attraversando un periodo di ripresa economica, sebbene con la ripercussione deludente di una lenta occupazione negli Stati Uniti e in Europa. Ma quali sono stati i problemi legati alle politiche adottate tra il 2007 ed il 2009 e perché non è possibile implementare lo stesso meccanismo in futuro di fronte ad una crisi simile a questa?

Il problema sono gli incentivi ed i comportamenti che derivano dai piani di salvataggio all’interno del settore finanziario. La protezione estesa alle banche e ad altri istituti finanziari dall’estate del 2007 e dal fallimento della Lehman Brothers e dell’AIG a settembre del 2008 ha inviato un messaggio chiaro e semplice. Se l’entità di un istituto è rilevante all’interno del sistema, si otterrà più facilmente un consistente aiuto dal governo in caso di vulnerabilità.

Cosa si intende per entità rilevante rimane ancora da capire. I principali fondi di investimento stanno cercando nuove modalità di crescita per assumere un’ importanza sistemica. Dovrebbero, dal loro punto di vista, cercare di ingrandirsi evitando di sottostare alle regole ferree imposte dalla norma, ad esempio evitando l’imposizione di limiti a priori sulle attività che comportano dei rischi. Se tutto procede come previsto, questi fondi di investimento, e di conseguenza le banche facenti parte della categoria troppo grandi per fallire riusciranno ad ottenere grandi vantaggi.

Ovviamente, se qualcosa va male, tutti coloro che fanno parte della categoria troppo grandi per fallire, e chi ha concesso credito alle aziende di questa categoria, si aspetteranno una forma di protezione da parte del governo. Quest’aspettativa riduce il costo del credito per le superbanche di adesso (rispetto ai loro competitori che sono di piccola entità tanto da mettere in conto il fallimento). Ne risulta che tutti gli istituti finanziari possono ottenere incentivi consistenti per crescere (e continuare a chiedere prestiti) nella speranza di diventare ancora più grandi e, di conseguenza, sentirsi più sicuri (rispetto ai creditori e non ad una prospettiva sociale).

I principali policy maker statunitensi riconoscono che questo sistema di incentivi rappresenta un grande problema, mentre, ancor più interessante, molti dei loro omologhi non sono neppure disposti a parlare della questione apertamente. Tuttavia, secondo la linea ufficiale della Casa Bianca e del Dipartimento del Tesoro, il sostegno alle banche della categoria troppo grandi per fallire giungerà al termine con la riforma finanziaria in discussione al Congresso e in attesa di essere firmata, sembrerebbe senza ostacoli, da Obama nel giro di un mese.

Purtroppo i fatti sono ben diversi. Riguardo alle critiche sull’eccessiva grandezza delle banche e delle implicazioni legate al rischio sistemico, i senatori Ted Kaufman e Sherrod Brown si sono mossi per imporre un limite di dimensione alle banche più grandi, in conformità con le disposizioni della Volcker rule proposta a gennaio 2010 dallo stesso Obama.

In un quasi incredibile volta faccia, per motivi che rimangono tuttora misteriosi, la stessa amministrazione Obama ha bocciato questo approccio. Se fosse entrato in vigore, Brown e Kaufman avrebbero smembrato le 6 banche più importanti d’America, ha affermato un funazionario senior del tesoro. Se fossimo stati d’accordo, sarebbe probabilmente passato. Ma non lo eravamo, quindi non è successo.

Pur non avendo un grande impatto sulle prospettive a medio termine, è comunque importante che la crescita economica mondiale si assesti al 4 o 5%,. Il settore finanziario statunitense ha ottenuto un piano di salvataggio incondizionato e non sta, al momento, rivedendo alcuna normativa importante. Ci stiamo quindi, senza dubbio, preparando per un altro boom economico basato su rischi eccessivi e sconsiderati nel cuore del sistema finanziario mondiale. Il che può finire solo in un modo: male.

Simon Johnson, ex capo economista dell’FMI e co-fondatore di uno dei blog più rinomati sull’economia, , è anche professore al MIT Sloan, e ricercatore senior all’Istituto Peterson per l’Economia Internazionale.

Copyright: Project Syndicate, 2010.www.project-syndicate.orgPodcast in lingua inglese disponibile a questo indirizzo:

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