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Economia Gli economisti

La vita eterna delle grandi banche americane

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Questo articolo è stato pubblicato il 30 luglio 2010 alle ore 09:50.


WASHINGTON – L’economia mondiale si trova di fronte ad una grande problematica: le più grandi banche statunitensi continuano ad essere troppo grandi per fallire, il che significa che se una o più di queste dovesse navigare in cattive acque, sarebbe salvata dal governo. Le conseguenze, infatti, di un’eventuale inerzia incutono senza dubbio troppo timore.

Questa problematica è ampiamente riconosciuta non solo dai dirigenti, ma dagli stessi banchieri e trovare una soluzione è diventata una priorità condivisa ormai da tutti. Persino Jamie Dimon, il potente presidente della grande società JP Morgan Chase, ha sottolineato che la clausola del troppo grande per fallire deve essere eliminata.

Purtroppo l’approccio suggerito dall’amministrazione Obama per porre fine a questa clausola, al momento in discussione al Congresso, non funzionerà.

Attualmente l’interesse è rivolto al decreto legge sulla riforma finanziaria del senatore Christopher Dodd, presentata dalla Commissione Bancaria del Senato e presto in discussione in aula al Senato. Il decreto di Dodd porterebbe all’introduzione di un’ autorità di risoluzione, ovvero un’agenzia governativa con il potere legale di rilevare e chiudere gli istituti finanziari in fallimento.

Secondo i sostenitori del decreto, questo approccio si basa sugli ottimi risultati dell’Agenzia federale americana per l’assicurazione dei depositi (FDIC) che ha registrato un ampio record di chiusure di piccole e medie banche statunitensi senza provocare grande dissesto e senza perdite per i depositanti. In questo contesto, il termine risoluzione implica il licenziamento dei manager della banca, l’eliminazione degli azionisti e possibilità di perdite da parte dei creditori chirografari. Si tratta, sostanzialmente, di una forma di bancarotta, ma con maggior discrezione amministrativa (e presumibilmente più protezione per i depositanti) di quanto sia possibile in un procedimento supervisionato dal tribunale.

L’applicazione di questo procedimento alle grandi banche e ai grandi istituti finanziari, che non sono formalmente delle banche e che non hanno depositi individuali assicurati, sembra ottimo sulla carta. Ma nella pratica questo tipo di approccio crea un’insormontabile difficoltà.

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Tags Correlati: Associazione Italiana alberghi per la Gioventù | Christopher Dodd | Fmi | James Kwak | Jamie Dimon | Lehman Brothers | MIT Sloan | Normativa sulle banche | Peterson | Senato | Simon Johnson | Stati Membri | Stati Uniti d'America

 

Basti pensare al momento critico del processo decisionale nel caso in cui una grande banca, come la JP Morgan Chase (con un bilancio pari a 3 miliardi circa), si trova a rischio fallimento. Immaginate di essere un senior decision maker, come il Ministro del Tesoro o un consulente chiave del Presidente degli Stati Uniti, in quanto è questo il livello a cui vengono prese certe decisioni.

Avete a disposizione l’autorità di risoluzione introdotta dal senatore Dodd e, sempre in qualità di senior decision maker, vi trovate all’incontro decisivo con l’intenzione di non salvare la banca a rischio fallimento, oppure, alla peggio, di salvarla con un sostanziale taglio (che potrebbe ad esempio implicare delle perdite) a danno dei creditori chirografari. Poi, qualcuno vi ricorda che la JP Morgan Chase è un complesso istituto finanziario di livello globale.

L’autorità di Dodd permette al governo statunitense di determinare i termini di un rilevamento ufficiale solo all’interno degli Stati Uniti. In dozzine di altri paesi, dove la JP Morgan ha succursali, filiali o altri tipi di business, si verificherebbe una bancarotta dei segmenti plain vanilla, mentre alcuni governi accorrerebbero in salvataggio con diverse disposizioni ad hoc.

Le conseguenze di questa combinazione di risposte non coordinate si diffonderebbero, disseminando terrore e creando caos. E’ già successo quando la Lehman Brothers è fallita a settembre 2008 e quando l’AIG è stata rilevata dal governo statunitense due giorni dopo (in realtà con una struttura simile a quella impiegata tramite la risoluzione, con perdite implicite per i creditori).

L’esistenza di un’autorità di risoluzione statunitense non aiuta a contenere i danni o il panico che nasce di fronte al fallimento di grandi banche globali. Il fallimento di questa tipologia di banche potrebbe essere gestito in modo più sistematico tramite l’utilizzo di un’autorità di risoluzione oltreconfine. Ma al momento non esiste questo meccanismo e non vi sono probabilità che venga introdotto a breve. I policy maker degli altri paesi membri del G20 sono piuttosto chiari su questo punto: nessuno accetterà a priori una forma predefinita di gestione del fallimento delle banche globali.

Nel momento in cui la JP Morgan Chase, o una delle 6 più grandi banche americane, dovesse fallire, la scelta sarebbe tra le stesse due ipotesi di settembre 2008: si salva la banca a rischio o si lascia fallire e si affronta il caos che molto probabilmente si diffonderebbe nei mercati con il rischio di una nuova Grande Depressione?

Cosa deciderebbe in questo caso il presidente? Lui/lei avrà probabilmente promesso, persino in pubblico, che i creditori avrebbero potuto affrontare delle perdite, ma sull’orlo del precipizio, voi, consulente assediato, quale via consigliereste di prendere? Riuscireste a spingere il presidente a saltare oltre il precipizio, facendo sprofondare milioni di persone, i loro posti di lavoro, le loro case e le loro famiglie, in un abisso finanziario? Oppure vi tirereste indietro e trovereste un modo ingegnoso per salvare la banca e proteggere i creditori utilizzando il denaro pubblico, o la riserva federale o altri poteri d’emergenza?

Quasi sicuramente vi tirereste indietro. Alla resa dei conti, spaventa molto meno salvare una grande banca che lasciarla fallire.

E questo lo sanno anche i mercati di credito, per questo preferiscono fare prestiti agevolati alla JP Morgan Chase e ad altre grandi banche piuttosto che alle banche più piccole che corrono seriamente il rischio di fallire. Ciò permette alle grandi banche di diventare ancora più grandi. E più lo diventano, più i creditori si mettono in salvo. E’ abbastanza evidente, quindi, cosa comporta tutto questo.

La bozza attuale del decreto legge del senatore Dodd non eliminerà la clausola troppo grandi per fallire. Come si può intuire dal titolo del mio nuovo libro, 13 Bankers: The Wall Street Takeover and the Next Financial Meltdown (13 banchieri: il rilevamento di Wall Street e la prossima fusione finanziaria - ndt), in collaborazione con James Kwak, le conseguenze a livello globale saranno terribili.

Simon Johnson, ex capo economista del FMI e co-fondatore di uno dei blog più rinomati sull’economia, , è anche professore al MIT Sloan, e ricercatore senior all’Istituto Peterson per l’Economia Internazionale.

Copyright: Project Syndicate, 2010.www.project-syndicate.orgPodcast in lingua inglese disponibile a questo indirizzo:

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