Questo articolo è stato pubblicato il 09 agosto 2010 alle ore 19:59.
CAMBRIDGE – Una domenica mattina di poco tempo fa, diverse centinaia di attivisti a favore della democrazia si sono riuniti in piazza a Mosca per protestare contro le restrizioni imposte dal governo sulla libertà di riunirsi. Mostravano dei cartelli con scritto 31 in riferimento all’articolo 31 della costituzione russa che garantisce, per l’appunto, il diritto a riunirsi. I manifestanti sono stati subito circondati dalla polizia nel tentativo di disperderli. Uno dei principali critici del Cremlino è stato trascinato, insieme a molti altri, in una macchina della polizia ed è stato portato via.
Episodi come questo accadono ormai quasi quotidianamente in Russia, dove il Primo Ministro, Vladimir Putin, governa il paese con il pugno di ferro, mentre le persecuzioni contro gli oppositori, le violazioni dei diritti umani e gli abusi delle leggi sono diventate routine. In un periodo in cui la democrazia ed i diritti umani sono ormai la regola nel contesto globale, queste trasgressioni non aiutano di certo a migliorare la reputazione della Russia. Questo, i leader autoritari come Putin, lo capiscono bene, ma, apparentemente, lo ritengono un prezzo equo per esercitare a casa loro un controllo sfrenato.
Quello che, invece, i leader come Putin non comprendono, è che la loro politica compromette necessariamente il futuro economico del loro paese e la loro posizione nel contesto economico globale.
La relazione tra la politica di una nazione e le sue prospettive economiche è uno degli aspetti più importanti, e più studiati, di tutte le scienze sociali. Ma cosa è meglio per la crescita economica: solide linee guida non condizionate dalla pressione della competizione politica, oppure una pluralità di interessi in competizione tra di loro in grado di incoraggiare l’apertura a nuove idee e a nuovi attori politici?
Gli esempi provenienti dall’Asia orientale (Corea del Sud, Taiwan, Cina) sembrano suggerire che la prima sia l’opzione migliore. Ma come si può quindi spiegare il fatto che quasi tutti i paesi ricchi, a parte le nazioni che devono la loro ricchezza esclusivamente alle risorse naturali, siano democratici? L’apertura politica dovrebbe quindi essere una premessa piuttosto che una conseguenza della crescita economica?
Osservando le testimonianze di contesti storici sistematici, piuttosto che di casi individuali, si intuisce che l’autoritarismo non favorisce particolarmente la crescita economica. Per ogni paese retto da un regime autoritario in grado di sostenere una rapida crescita economica, ce ne sono molti altri che si sono invece trovati in difficoltà. Per ogni Lee Kuan Yew di Singapore, ci sono altrettanti Mobutu Sese Seko del Congo.
Le democrazie superano le dittature non solo in termini di crescita economica a lungo termine, ma le surclassano anche in diversi altri termini. Forniscono una maggiore stabilità economica, misurata dagli alti e i bassi del ciclo commerciale. Riescono ad adattarsi meglio agli shock economici esterni (come nel caso dell’indebolimento delle ragioni di scambio oppure di arresti improvvisi dell’afflusso di capitale). Le democrazie generano inoltre più investimenti in capitale umano, nel campo della salute e dell’educazione, creando società più eque.
Per contro, i regimi autoritari sviluppano, in definitiva, economie fragili tanto quanto i loro sistemi politici. La loro potenza economica, quando c’è, si basa sulla forza dei leader individuali oppure su circostanze favorevoli ma temporanee. Non possono in alcun caso aspirare a un processo continuo d’innovazione economica o a una leadership economica globale.
A prima vista la Cina sembra essere un’eccezione. Dalla fine degli anni ’70, a seguito dei disastrosi esperimenti condotti da Mao, la Cina ha progredito in maniera eccellente arrivando a tassi di crescita economica senza precedenti. Ma sebbene abbia democratizzato parte del suo processo decisionale locale, il Partito comunista cinese continua a mantenere una presa ben salda sulla politica nazionale, mentre il contesto dei diritti umani rimane deturpato dai frequenti abusi.
Inoltre, rispetto ad altri paesi, la Cina rimane uno stato povero. Il suo futuro progresso economico dipende, in gran parte, dalla sua capacità di aprire il suo sistema politico alla competizione, così come ha fatto per l’economia. Senza questa trasformazione, la mancanza di meccanismi istituzionalizzati per dar voce ed organizzare il dissenso, produrranno a lungo andare conflitti in grado di sopraffare la capacità di soppressione del regime, a danno sia della stabilità politica che della crescita economica.
Russia e Cina sono, in ogni caso, entrambe grandi e potenti economie. Il loro esempio potrebbe influenzare altri leader in altri paesi e far loro pensare di poter aspirare ad un’ascesa economica, pur rafforzando la stretta sull’opposizione politica.
Prendiamo in considerazione la Turchia, una potenza economica emergente nel Medio Oriente, apparentemente destinata, almeno fino a poco tempo fa, a diventare l’unica democrazia musulmana della regione. Durante il suo primo mandato, il Primo Ministro Recep Tayyip Erdogan ha allentato alcune misure restrittive imposte sulle minorità curde e ha fatto passare delle riforme in grado di mettere la legislazione del paese in linea con la normativa europea.
Più recentemente, Erdogan ed i suoi alleati hanno lanciato una campagna, a malapena celata, allo scopo di intimidire i suoi oppositori e di rafforzare il controllo del governo sui media e sulle istituzioni pubbliche. Hanno incarcerato centinaia di funzionari militari, accademici e giornalisti con la falsa accusa di fomentare il terrorismo e pianificare un colpo di stato. Le intercettazioni e le persecuzioni a danno dei critici di Erdogan sono ormai così diffuse tanto da portare molti a pensare che il paese si sia trasformato in una repubblica della paura.
Nonostante le sue forti basi, questo spostamento verso l’autoritarismo è di cattivo auspicio per l’economia turca. Avrà un effetto corrosivo sulla qualità del processo politico, e metterà in pericolo la rivendicazione della Turchia ad una posizione nel contesto economico globale.
Per delle vere superpotenze economiche emergenti, bisogna quindi guardare al Brasile, all’India ed al Sudafrica che hanno già completato la loro transizione democratica e potrebbero difficilmente regredire. Nessuno di questi paesi è esente da problematiche, ovviamente. Se il Brasile deve ancora recuperare in pieno il suo dinamismo economico e trovare la strada per una crescita rapida, la democrazia dell’India può risultare esasperante nella sua resistenza al cambiamento economico, mentre il Sudafrica registra un tasso estremamente elevato di disoccupazione.
Ciò nonostante, queste sfide non sono niente se paragonate al lavoro estremamente importante di trasformazione istituzionale che attende i paesi autoritari. Non bisogna perciò sorprendersi se il Brasile farà mangiare la polvere alla Turchia, se il Sudafrica supererà la Russia e se l’India batterà la Cina.
Dani Rodrik, Professore di economia politica alla John F. Kennedy School of Government dell’Università di Harvard, è stato il primo a ricevere il premio Albert O. Hirschman del Consiglio di Ricerca sulla Scienza Sociale. Il suo ultimo libro si intitola One Economics, Many Recipes: Globalization, Institutions, and Economic Growth (Un’economia, molte ricette: globalizzazione, istituti, e crescita economica) Copyright: Project Syndicate, 2010.www.project-syndicate.org