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Il rischio dei bonus

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Questo articolo è stato pubblicato il 18 agosto 2010 alle ore 13:02.


CHICAGO – Durante la sessione di luglio, il Parlamento Europeo ha approvato una serie di regolamenti, tra i più severi al mondo, sui bonus elargiti ai banchieri con l’obiettivo di limitare i rischi operativi da parte degli istituti finanziari.

In base alle nuove norme, il 30% dei bonus dovrà essere pagato in contanti, la somma corrispondente al 40-60% dovrà essere dilazionata perlomeno in tre anni, mentre almeno il 50% dovrà essere investito in capitale contingente, una nuova forma di debito che prevede la conversione in azioni nei momenti di difficoltà delle aziende. L’aspetto più innovativo di queste nuove regole è che le restrizioni non vengono applicate solo ai direttori generali degli istituti finanziari, bensì anche a tutti i top manager (sebbene la definizione di top manager dipenda dai contesti parlamentari nazionali).

La presunta giustificazione per questa significativa interferenza nell’attività privata è la conseguenza sistemica che questi bonus possono avere. Gli stipendi elevati del settore bancario, così viene argomentata la questione, premiano i successi ma non penalizzano i fallimenti. I manager bancari sono, infatti, liberi di cambiare azienda nei momenti di difficoltà, evitando in tal modo qualsiasi forma di punizione. Il sistema premia i manager per correre dei rischi anche quando il rischio è eccessivo, il che è sintomo di un’alterazione percepita come una delle principali cause della crisi finanziaria del 2008.

Il problema è che non esiste alcuna prova logica a sostegno di questo primo importante collegamento. Gran parte degli studi condotti hanno tentato di stabilire una connessione tra i sistemi di incentivi ed i rischi operativi, ma senza alcun risultato. Al più, si è riscontrato che i funzionari più pagati corrono un numero più elevato di rischi operativi, sebbene non sia chiaro se ciò ne sia la causa oppure la conseguenza. I funzionari degli istituti più influenti dovrebbero essere pagati di più proprio perché corrono più rischi.

A conferma di quest’affermazione, le ricerche vengono condotte esclusivamente sui primi cinque top manager, i cui dati sono disponibili pubblicamente. Non esistono invece, purtroppo, dati disponibili per stabilire una relazione di causa-effetto tra i bonus per la performance ed i rischi operativi dei manager di livello più basso.

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Tags Correlati: Gordon Brown | Graduate School of Business | Management | Marzia Pecorari | Oliver Hart | Raghuram G. Rajan

 

A questo riguardo, la Financial Crisis Inquiry Commission (FCIC), commissione del Congresso istituita dal governo statunitense che indaga sulle cause della crisi, ha un’opportunità unica. Grazie ai suoi poteri operativi, la FCIC può infatti raccogliere i dati e analizzarli. Si spera quindi che con la pubblicazione della sua relazione prevista per dicembre, si riuscirà a dare una risposta al quesito.

Ipotizzando che esista un legame tra i due elementi, la direttiva europea sembra essere ben delineata, pur presentando una fondamentale mancanza. E’ ben redatta in quanto non interviene sul livello di remunerazione (come molti avevano invece richiesto), ma sulla forma in cui vengono elargiti gli incentivi. La direttiva prevede, infatti, che gran parte del bonus annuale non solo venga dilazionato in tre anni, ma che venga anche messo a rischio. Se l’azienda registra una prestazione di basso livello nei tre anni indicati, il manager perderà parte o il totale del bonus accumulato, il che riduce l’incentivo a correre dei rischi, pur non eliminandoli.

La principale mancanza dipende invece dal fatto che queste restrizioni possono essere aggirate facilmente dato che sono applicabili solo al sistema degli incentivi, mentre alle banche rimane la discrezione di stabilire la proporzione tra stipendio e bonus. Al momento, i manager delle banche ricevono i loro bonus all’inizio di ogni anno con un livello corrispondente alla performance mantenuta nel corso dell’anno passato. Non ci vorrebbe nulla, quindi, a trasformare il bonus legato alla prestazione professionale dell’anno precedente nello stipendio dell’anno in corso. Lo stipendio, che può essere elargito in contanti, verrebbe rinegoziato su base annuale evitando in tal modo le restrizioni normative. Senza un intervento diretto da parte dei governi, sarebbe pertanto difficile risolvere la questione.

Tuttavia, nei grandi istituti finanziari non sono solo i manager a beneficiare degli incentivi che spingono a correre dei rischi a spese dei contribuenti, ma anche gli obbligazionisti che sono, di fatto, protetti dal governo. Con la garanzia di accesso ad un credito assicurato, la tentazione da parte degli azionisti bancari di prendere in prestito somme in eccesso è decisamente forte. L’applicazione di restrizioni sui bonus dei manager senza l’apporto di alcuna modifica agli incentivi degli azionisti risulterà quindi solo in un maggior coinvolgimento degli azionisti stessi nelle operazioni aziendali e nell’individuazione di nuove modalità per aumentare il livello dei rischi operativi.

Se il problema è dato dal rischio morale legato alle banche troppo grandi per fallire, la soluzione non dipende dall’imposizione di un limite allo stipendio, ma dall’eliminazione del rischio, costringendo gli azionisti ad emettere più azioni ordinarie o a perdere le loro stesse azioni nel momento in cui il debito bancario diventa troppo rischioso. Come ho spiegato insieme ad Oliver Hart in un nostro studio recente, ciò si può fare in modo semplice, tramite l’intervento di un ente regolatore ogni qualvolta i credit default swap sul debito degli istituti finanziari diventano troppo elevati.

Se si vuole intervenire sullo stipendio oltre a (e non al posto di) riformare i requisiti del capitale, il modo più efficace sarebbe cambiare il valore della tassa imposta dall’ex Primo Ministro britannico, Gordon Brown; una tassa speciale sui compensi oltre una certa soglia, non elargiti in azioni. Questa tassa avrebbe un duplice effetto: indurrebbe le banche a fare interventi di ricapitalizzazione, riducendo la loro eccessiva influenza, e costringerebbe, allo stesso tempo, i manager a mettere ancor più in gioco i loro interessi.

Se la soluzione è così semplice, perché nessun organo elettivo l’ha ancora implementata? Temo che i politici vogliano essere considerati rigidi nei confronti dei banchieri, ma che non abbiano, in realtà, alcun interesse a risolvere il problema.

Luigi Zingales è professore di imprenditoria e finanza alla Graduate School of Business dell’Università di Chicago, ed è coautore, insieme a Raghuram G. Rajan, di Saving Capitalism from the Capitalists (Salvando il capitalismo dai capitalisti).

Copyright: Project Syndicate, 2010.www.project-syndicate.orgPodcast in inglese a questo indirizzo:Traduzione di Marzia Pecorari

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