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Economia Gli economisti

Il luogo comune dell’industria manifatturiera

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Questo articolo è stato pubblicato il 27 agosto 2010 alle ore 15:51.


NEW YORK – Tempo fa gli economisti avevano accantonato l’erronea teoria di Adam Smith secondo la quale l’industria manifatturiera dovrebbe essere prioritaria nell’economia di un paese. Nel secondo volume de La ricchezza delle nazioni Smith condanna infatti il lavoro degli ecclesiastici, degli avvocati, dei fisici, dei letterati di ogni genere; dei giocatori, dei buffoni, dei musicisti, dei cantanti e dei ballerini d’opera, ecc., considerandolo improduttivo. Se da un lato potremmo concordare con Smith (e Shakespeare) sull’inutilità degli avvocati, non possiamo, dall’altro, dire lo stesso per Olivier, Falstaff e Pavarotti. Ciò nonostante, il feticismo per l’industria manifatturiera si ripresenta immancabilmente e, sulla scia dell’ultima crisi, gli Stati Uniti ne sono la sua più recente manifestazione.

Nella Gran Bretagna della metà degli anni ’60, Nicholas Kaldor, economista di Cambridge di livello mondiale e consulente con un forte ascendente del partito laburista, lanciò l’allarme sul processo di deindustrializzazione. Secondo la sua teoria, lo spostamento, in atto al tempo, del valore aggiunto dall’industria manifatturiera ai servizi avrebbe provocato gravi danni in quanto l’attivià manifatturiera, al contrario del settore dei servizi, seguiva un processo di avanzamento tecnologico. Riuscì persino a spingere il laburista James Callaghan, al tempo Ministro del Tesoro, ad introdurre nel 1966 una tassa sull’occupazione selettiva che imponeva un’imposta maggiore sugli impieghi del settore dei servizi rispetto a quelli del settore manifatturiero. Tale misura fu poi rivista nel 1973, non appena ci si accorse dell’impatto che la tassa avrebbe avuto sull’industria turistica che produceva un’ampia disponibilità di valuta estera, al tempo estremamente necessaria.

L’argomentazione di Kaldor si basava sulla premessa, sbagliata, per cui i servizi non erano in grado di progredire dal punto di vista tecnologico. Tale prospettiva rispecchiava, senza dubbio, un empirismo occasionale basato sui negozietti e gli uffici postali di quartiere che i professori inglesi trovavano fuori dai college di Oxbridge. Una realtà tuttavia in contrasto con gli enormi cambiamenti tecnologici dell’attività di commercio al dettaglio, e, in un secondo tempo, dell’industria delle telecomunicazioni, che portò in tempi brevi al servizio FedEx, al fax, ai telefoni cellulari e ad Internet.

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Tags Correlati: Adam Smith | Berkeley University California | George Bush | Imprese | Inghilterra | James Callaghan | John Zysman | Marzia Pecorari | Michael Boskin | Stati Uniti d'America | Stephen Cohen

 

Si è andati poi addirittura oltre con la teoria per cui la selezione delle principali attività economiche dipenderebbe dalla presunta innovazione tecnologica, dando quindi priorità alla produzione dei semiconduttori rispetto alla produzione delle patate. Se da un lato il rifiuto di questa teoria ha messo Michael Boskin, capo del Consiglio dei consulenti economici sotto la presidenza di George Bush, in cattiva luce, la stessa supposizione ha invece spinto un giornalista a verificarne il principio. Si è scoperto che i semiconduttori vengono applicati ai circuiti in modo primitivo e con noncuranza, mentre la produzione delle patate avviene attraverso un processo altamente automatizzato (lo stesso che permette alle Pringles di aderire perfettamente l’una all’altra).

Il dibattito su produzione di semiconduttori contro produzione di patate ha poi sollevato un altro aspetto. Molti di quelli a favore dei semiconduttori sostenevano che in base al prodotto lavorato si determina la prospettiva di diventare un ignorante produttore di patate o un brillante modernizzatore, produttore di semiconduttori.

Ho voluto definire questa teoria come un errore quasi-marxista. Proprio Marx enfatizzava infatti il ruolo essenziale dei mezzi di produzione. Da parte mia, credo invece che si potrebbero produrre semiconduttori, scambiarli con patatine da sgranocchiare davanti alla TV diventando degli idioti. O al contrario, si potrebbero invece produrre patatine, scambiarle con semiconduttori per computer e diventare maghi del PC! In breve, è ciò che si consuma non quello che si produce ad influenzare il tipo di persona che si diventerà ed il modo in cui il prodotto influirà sull’economia e la società.

Ignari dell’ampio dibattito britannico degli anni ’60 sulla deindustrializzazione, due docenti di Berkley, Stephen Cohen e John Zysman, hanno dato vita nel 1987 ad un dibattito simile negli Stati Uniti con il loro libro Manufacturing Matters, secondo il quale senza la produzione manifatturiera la sopravvivenza del settore dei servizi sarebbe insostenibile. Argomentazione speciosa, dato che si può benissimo avere un’industria del trasporto solida con camion, linee ferroviarie e cargo quali mezzi di tasporto per i prodotti agricoli all’interno del paese e tra le varie nazioni come hanno sempre fatto con successo l’Argentina pre-peronista, l’Australia, la Nuova Zelanda ed il Cile di oggi.

Cohen e Zysman sostenevano che la produzione manifatturiera era strettamente legata ai servizi come l’irroratore ai campi di cotone, il produttore di ketchup ai campi di pomodoro, e che se si si trasferisce la fabbrica di pomodori all’estero...si chiude o si trasferisce all’estero anche l’impianto per la produzione di ketchup....C’è poco da discutere. A tali affermazioni rispondo che: Mentre leggevo il profondo concetto espresso sulla fabbrica di pomodori e l’impianto per la produzione del ketchup, stavo gustando la mia marmellata preferita d’arance vintage della Crabtree & Evelyn. Di certo, non mi è mai passato per la testa che l’Inghilterra avesse una propria produzione di arance.

Se queste teorie sono decadute in tempi brevi in quanto rispecchiavano per lo più un’ossessione accademica nei confronti della produzione manifatturiera, non si può dire lo stesso per il recente ritorno del feticismo per l’attività manifatturiera negli Stati Uniti e in Gran Bretagna. L’ultima ondata a sostegno del settore manifatturiero è derivata dalla crisi attuale, in particolar modo nel settore finanziario, ed ha pertanto molte più probabilità di sopravvivere. Il feticismo per l’attività manifatturiera è in realtà particolarmente dilagante negli Stati Uniti, dove i congressisti democratici sono arrivati ad allearsi con i lobbisti del settore manifatturiero per approvare un decreto che protegga il settore e fornisca sovvenzioni al fine di aumentare la quota della produzione manifatturiera all’interno del PIL.

A causa della crisi finanziaria, molti politici hanno accolto l’idea per cui, in una forma di regressione virtuale ad Adam Smith, i servizi finanziari sarebbero improduttivi, e persino controproduttivi, e dovrebbero pertanto essere ridotti gradualmente tramite un intervento del governo. Ciò lascia ad intendere che il settore manifatturiero dovebbe invece essere allargato. Il che non ha senso. Anche se si volessero ridurre i servizi finanziari, si potrebbe comunque mantenere la moltitudine di servizi non finanziari.

I motori diesel e le turbine non sono le uniche alternative. Molti altri servizi, come la terapia professionale, l’assistenza infermieristica e l’insegnamento, sono ugualmente a disposizione. E non ci sono ancora prove a sostegno della tesi che incoraggia uno spostamento verso il settore manifatturiero.

Jagdish Bhagwati è professore di economia e giurisprudenza presso la Columbia University ed è inoltre ricercatore senior in economia internazionale presso il Consiglio per le relazioni estere.

Copyright: Project Syndicate, 2010.www.project-syndicate.orgPer un podcast di questo articolo in inglese, cliccare sul seguente link:Traduzione di Marzia Pecorari

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