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Economia Gli economisti

La Grande Depressione nella memoria economica

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Questo articolo è stato pubblicato il 03 settembre 2010 alle ore 11:46.


PARIGI – La disputa emersa negli Stati Uniti e in Europa tra i sostenitori delle politiche governative di stimolo e i fautori dell’austerità fiscale assomiglia molto a un dibattito di storia economica. Entrambi i fronti hanno rivisitato la Grande Depressione degli anni ’30 – nonché la secolare storia delle crisi di debito sovrano – in una controversia che sembra essere simile alle tradizionali controversie di politica economica.

Il fronte favorevole agli stimoli spesso fa riferimento ai danni prodotti negli USA dall’austerità fiscale nel 1937, quattro anni dopo l’elezione di Franklin Roosevelt a presidente degli Stati Uniti e il lancio del New Deal. Secondo i calcoli dell’economista Paul van den Noord, il risultato finale del bilancio del 1937 fu una contrazione fiscale che si aggirava intorno a tre punti percentuali del Pil – certamente non un risultato da nulla. La crescita economica precipitò dal 13% nel 1936 al 6% nel 1937, e il Pil scese al 4,5% nel 1938, mentre la disoccupazione saliva dal 14% a circa il 20%. Sebbene la politica fiscale non sia stata l’unica causa del double dip, i pressanti tagli alla spesa pubblica sicuramente hanno fatto la loro parte.

Allora, siamo forse nel 1936, e le politiche restrittive contemplate in diversi paesi rischiano di provocare una simile recessione double dip?

Ci sono chiaramente dei limiti in questo confronto. Tanto per iniziare, meno tempo è trascorso dalla crisi finanziaria, la recessione è stata molto più debole e la ripresa è iniziata più rapidamente. Inoltre, gli importanti sviluppi avvenuti tra la crisi del mercato azionario del 1929 e l’austerità fiscale del 1937 – soprattutto la svolta protezionista americana nel 1930 e la crisi monetaria degli anni seguenti – non hanno analogie con la situazione attuale.

Ciò nonostante, l’episodio del 1937 sembra, ad ogni modo, illustrare i pericoli dei tentativi di consolidamento delle finanze pubbliche in un periodo in cui il settore privato è ancora troppo debole per consentire una ripresa economica autosostenuta. (Un altro caso con conseguenze simili fu l’aumento dell’imposta sul valore aggiunto avvenuto in Giappone nel 1997, che ha provocato un collasso dei consumi).

I falchi fiscali fanno inoltre affidamento ad argomenti basati sulla storia. Gli economisti Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff hanno esaminato secoli di crisi dettate dal debito sovrano, e ci ricordano che il mondo sviluppato di oggi non deve dimenticare la storia dei default sovrani. Un esempio particolarmente incisivo è il periodo successivo alle guerre napoleoniche svoltesi agli inizi del diciannovesimo secolo, quando una fila di stati esausti risultò inadempiente. Anche gli anni ’30 sono rilevanti per il nostro caso, considerata la serie di inadempienze degli stati europei, non da ultima la Germania.

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Tags Correlati: Borsa Valori | Bruegel | Carmen Reinhart | Europa | Franklin Roosevelt | Jean Pisani-Ferry | Kenneth Rogoff | Paul van den Noord | Pil | Simona Polverino | Stati Membri

 

La storia ci insegna quindi che i default non sono una prerogativa dei paesi poveri, malgovernati. Sono una minaccia per tutti, soprattutto nei periodi di elevata mobilità di capitali, quando i governi si affidano troppo all’apparente disponibilità dei prestatori stranieri a fornire fondi e si trovano in serie difficoltà una volta interrotti gli afflussi di capitale.

E di nuovo, ci sono dei limiti in questo confronto: è particolarmente arduo desumere dagli episodi passati i limiti del debito pubblico. Dopotutto, il debito pubblico britannico è cresciuto del 250% del Pil nel secondo dopoguerra, e la Gran Bretagna non è risultata inadempiente. Ma da un’attenta riesamina della storia emerge che le politiche fiscali insostenibili possono con maggiore probabilità provocare il rischio di default, quando i problemi di bilancio non possono essere risolti ricorrendo all’inflazione. Questo è quello che è successo con i regimi monetari basati sull’oro come il Gold Standard del diciannovesimo secolo, ed è quello che accade oggi ai paesi che hanno rinunciato alla propria autonomia monetaria, come gli stati membri dell’Eurozona.

In tempi normali, la storia viene lasciata agli storici e il dibattito di politica economica si affida a modelli e stime econometriche. Ma gli atteggiamenti sono cambiati con lo scoppio della crisi nel 2007-2008. In effetti, in quel periodo i banchieri centrali e i ministri erano ossessionati dalla memoria degli anni ‘30, e consciamente hanno fatto l’opposto di quanto fecero i loro predecessori 80 anni prima.

E hanno fatto bene ad agire così. In tempi straordinari, la storia, in effetti, è una guida migliore di quanto non lo siano i modelli stimati con i dati dei tempi normali, perché cattura la varianza che viene ignorata dalle tecniche standard basate sulle serie storiche. Se si desidera sapere come affrontare una crisi bancaria, il rischio di una depressione o la minaccia di un default, è naturale esaminare i periodi in cui si sono manifestati quei pericoli, piuttosto che affidarsi a modelli che li ignorano o li considerano nuvole passeggere. In tempi di crisi, le migliori guide sono la teoria, che cattura l’essenza di un problema, e gli insegnamenti derivanti dal tempo passato. Tutto ciò che è nel mezzo è praticamente inutile.

Il pericolo di affidarsi alla storia, tuttavia, è che non disponiamo di una metodologia in grado di decidere quali siano le comparazioni rilevanti. Le analogie blande possono essere facilmente considerate a fine di prova, e un’ampia serie di esperienze può essere presa in considerazione a sostegno di uno specifico punto di vista. I policymaker (la cui conoscenza della storia economica è generalmente limitata) rischiano pertanto di perdersi tra riferimenti storici contraddittori.

La storia può essere una bussola essenziale quando l’esperienza del passato fornisce indicazioni non ambigue. Ma un ricorso non disciplinato alla storia rischia di diventare un modo confuso di esprimere opinioni. E per analogia, è facile che anche la governance diventi confusa.

Jean Pisani-Ferry è direttore di Bruegel, un think tank europeo.

Copyright: Project Syndicate, 2010.www.project-syndicate.orgTraduzione di Simona Polverino

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