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Economia Lavoro

Non basta la laurea in Italia: al medico serve la cittadinanza

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Questo articolo è stato pubblicato il 20 settembre 2010 alle ore 08:03.

«Ho una laurea italiana e sono regolarmente abilitata alla professione. Ma se la legge non cambia non potrò mai fare il medico di famiglia, come facevo invece nel mio paese. E questo solo perché sono straniera». Il caso della dottoressa Maria Braniste, moldava, è comune a molti medici immigrati in Italia. Secondo la legge, infatti, per partecipare a concorsi pubblici con cui vengono assegnati i posti nelle strutture del sistema sanitario nazionale, è necessario essere titolari di cittadinanza italiana.


Fatta salva l'abilitazione professionale, è questo il maggiore scoglio contro cui si infrangono i progetti dei medici extracomunitari. «Ho ottenuto il permesso di soggiorno nel 2003 – spiega Braniste – e potrò richiedere la cittadinanza a partire dal 2013. Fino ad allora le mie opportunità di lavoro saranno limitate al settore privato: collaborazioni con residenze per anziani, associazioni di ambulanze o studi medici». Sono 16.159, secondo Fnomceo, la Federazione degli Ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri, i medici stranieri abilitati alla professione in Italia, il 4,4% dei 370mila professionisti registrati dagli Ordini. La prima ondata di questa "immigrazione sanitaria" varca i nostri confini prima della crisi dell'ex-blocco sovietico: nelle università italiane si iscrivono molti studenti mediorientali, iraniani, greci, africani. E una buona parte di loro, una volta laureati, decide di non tornare in patria. Caduto il Muro di Berlino, invece il flusso della migrazione cambia: i medici, spesso già esperti, arrivano da Romania, Albania, Russia, Moldavia. Infine, negli anni più recenti si registra un nuovo aumento di studenti universitari stranieri.

«Solo nelle università di Roma, lo scorso anno, abbiamo avuto 40 matricole provenienti dai paesi arabi» racconta Fouad Aodi, medico palestinese, in Italia dall'81, oggi professore di fisiatria all'università La Sapienza e presidente dell'Amsi, Associazione medici stranieri in Italia. «Al di là di casi specifici di cattiva gestione, l'Italia ha uno dei sistemi sanitari migliori al mondo – sostiene Aodi – e anche per questo richiama medici e studenti dall'estero».

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Tags Correlati: Amsi | Asl | Congo | Elias Attalla | Fnomceo | Fouad Aodi | Kinshasa | Libere professioni | Maria Braniste | Ocse | Organizzazione Mondiale della Sanità | Roma | Tshomba Yamume | Università La Sapienza

 

L'accoglienza e l'integrazione di professionisti della sanità è un fenomeno che coinvolge tutti i paesi ad alto reddito. Secondo l'Organizzazione mondiale della sanità nel periodo 1980-2010 in molti paesi d'Europa il numero di impiegati stranieri nel settore sanitario si è alzato di più del 5% all'anno. Nei paesi dell'Ocse, infatti, circa il 20% dei medici è straniero (56 mila medici indiani) e si contano circa 110mila infermiere filippine. «Si tratta di una migrazione preoccupante – sottolinea Fouad Aodi – perché c'è il rischio di uno spopolamento di medici e paramedici nei paesi più poveri. Occorre sempre di più investire in formazione e aiuto ai sistemi sanitari del Sud del mondo». Per un medico extracomunitario, il riconoscimento del titolo di studio in Italia (si veda la scheda a fianco) è un passaggio fondamentale: «Ho lasciato la Moldavia per motivi economici e i primi anni in Italia ho fatto per necessità la baby sitter. Poi ho chiesto il riconoscimento del mio titolo – racconta Braniste –. Per ottenere una laurea valida ho dovuto sostenere altri sette esami universitari. E, finalmente, nel 2005 sono stata abilitata ad esercitare la professione».

Il dottor Elias Attalla, palestinese, lavora dal 1990 alla medicina d'urgenza del Policlinico Umberto I di Roma. «Quando studiavo, in Giordania, non era possibile specializzarsi in medicina – spiega Attalla –; per questo negli anni '70 sono venuto in Italia. Qui ho conosciuto mia moglie e sono diventato cittadino italiano. Questo, tra l'altro, mi ha permesso di accedere a un concorso pubblico». Il dottor Tshomba Yamume, nato a Kinshasa, Repubblica democratica del Congo, ma in Italia fin da bambino, invece è un giovane chirurgo vascolare che opera al San Raffaele di Milano: «Mia sorella, che è rimasta a Kinshasa, mi invita spesso a tornare – dice Yamume –, e io non ho abbandonato la speranza di mettere al servizio del Congo la mia formazione, costruita in un centro come il San Raffaele. Ma, paradossalmente, la mia attuale professionalità in un paese dove il 70% del territorio non ha copertura sanitaria, risulterebbe inutile. Lì mancano i farmaci per la malaria e le garze. Altro che chirurgia all'avanguardia».
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