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Questo articolo è stato pubblicato il 26 settembre 2010 alle ore 08:03.
Da osservatore dei microcosmi partirei da un fatto apparentemente poco significativo: il nuovo ambasciatore cinese a Roma, il signor Ding Wei, è un raffinato esperto di beni culturali. Un tratto biografico che secondo me la dice lunga su come le élite del nuovo impero globale vedono il nostro microcosmo italico. I numeri ci dicono che la macchina globale dello sviluppo ha ripreso a muoversi con il gigante cinese a far da traino al mondo e la locomotiva tedesca che spinge la "ripresina" nazionale.
Le tre economie vocate all'export e al "made in", Italia, Germania e Cina, sembrano essersi rimesse in moto. A velocità e con ruoli profondamente diversi. Più ammaccati gli europei, con i cinesi nel ruolo di protagonisti del nuovo turbocapitalismo, impegnati a celebrare nel parco a tema dell'Expo la grandeur del secolo asiatico fatta di potenza della tecnica e dell'industria. Con i tedeschi impegnati nella trasformazione consensuale di un capitalismo renano iperorganizzato in una economia flessibile e compiutamente export-led. E il nostro modello di capitalismo di territorio, fatto di pochi grandi gruppi, di un nocciolo di medie imprese in filiera con il capitalismo molecolare? Mi pare che i dati ci consegnino l'immagine di un'Italia sulla cruna dell'ago. Con uno spazio di posizione nella nuova geoeconomia globale da Giano Bifronte.
Ciò che oggi siamo è molto chiaro. Per oltre il 95% importiamo ed esportiamo manufatti. Rimaniamo un paese di globalizzazione manifatturiera a medio e corto raggio, le cui reti commerciali sono in grandissima parte interne al vecchio primo mondo europeo e statunitense, o al massimo arrivano ai limitrofi paesi della ex cortina di ferro; ma per il quale la "ripresina" attuale è significativa soltanto nei confronti delle nuove locomotive del far east e del Mercosur, dove l'export aumenta di quasi il 50% tra luglio 2009 e 2010. Che tuttavia continuano a pesare poco sul nostro export, ma in compenso mordono sempre più come concorrenti, visto che per ogni euro di export in Cina ve ne sono tre di merci importate; con il valore dell'abbigliamento made in China che da solo arriva quasi al totale del nostro export in quel paese. Dati che fanno venire in mente più la metafora della pentola bucata (Paolo Savona) che quella di una riscossa organizzata. Insomma, il nostro spazio di posizione resta espressione di un modello di globalizzazione soft e affluente, quella degli anni '80 e '90. Un modello trainato sia dalla domanda di distinzione dei ceti medi occidentali, vecchi e nuovi, acquirenti di un primo made in Italy fatto di grandi brand nella moda, beni per la casa, design; sia dal ciclo postfordista dell'outsourcing internazionale con un secondo made in Italy, che fino ai pieni anni '00 ci ha posizionati come subfornitori d'eccellenza dei grandi gruppi mitteleuropei, trainando un'espansione dei mercati in cui abbiamo saputo costruire nicchie d'eccellenza.