Questo articolo è stato pubblicato il 01 ottobre 2010 alle ore 09:42.
Indicatori reali Fuga dal rischio atto secondo? La tragedia dei conti pubblici truccati dalla Grecia ha allargato gli spread tra i titoli di stato europei e dato una spinta al dollaro. Ma diversamente che nei mesi cruciali della crisi, quando queste dinamiche erano accompagnate dalla caduta anche degli indicatori dell'economia reale, oggi questi ultimi hanno consolidato i valori che puntano alla ripresa.
Anzi, proprio l'euro meno forte (e non più debole, giacché agli attuali livelli penalizza la competitività del made in Euroland) aiuta a riequilibrare un po' la distribuzione della ripresa globale, che ha visto finora i maggiori emergenti (con l'eccezione russa) e gli Usa capitanare il recupero e l'area euro arrancare. Ovviamente è troppo presto perché i benefici derivanti dall'andamento del tasso di cambio si facciano già sentire. Perciò, l'ulteriore aumento a 54,1 del PMI manifatturiero nell'Eurozona a febbraio, il livello più elevato da due anni e mezzo, sarà seguito da ulteriori miglioramenti.
L'incedere non è però omogeneo tra paesi e settori dell'area euro. In generale, e questo vale anche per gli Stati Uniti, i progressi nel terziario sono più incerti di quelli nel manifatturiero. Questo si spiega con due ragioni. La prima è che la domanda interna recupera meno di quella estera, anche per le conseguenze della crisi sul mercato del lavoro e quindi sui consumi. La seconda è che la crisi aveva colpito di più proprio il manifatturiero e quindi è naturale che i ri-guadagni di attività siano maggiori qui. Tra i paesi spicca la Germania, con un Pmi a 57,1 a febbraio, seguita dalla Francia (54,6).
È difficile immaginare che la crisi greca possa far deragliare questa ripresa. Tenuto conto, infatti, della stazza modesta della sua economia (pesa il 2,6% del Pil dell'eurozona), l'aggiustamento richiesto sul deficit (quattro punti di Pil quest'anno) e i suoi effetti sulla sua domanda interna hanno ripercussioni molto limitate sugli altri paesi della moneta unica. Le ripercussioni maggiori potrebbero venire dal canale finanziario, se si dovesse arrivare all'improbabile default: perché le banche non greche dovrebbero far fronte a perdite che si sommerebbero a quelle dovute alla crisi finanziaria prima e alla recessione poi. Ma per quanto complicata sia sul piano istituzionale la gestione di quella vicenda, l'esito peggiore non è contemplato nemmeno dai mercati.
Gli altri dati congiunturali (indici anticipatori, fiducia, variazioni del Pil nel quarto trimestre) confermano gli andamenti disomogenei delle singole economie. Nei paesi avanzati, gli Usa registrano avanzamenti molto robusti nella produttività, preludio al miglioramento del mercato del lavoro; al netto delle vendite di auto, anche i consumi delle famiglie accelerano. L'area euro ha frenato sul finire del 2009. L'Italia ha addirittura innescato la retromarcia (-0,2% il Pil); ma le attese sulla produzione in avvio di 2010 promettono miglioramenti.
Inflazione I prezzi al consumo totali, come atteso, stanno accusando incrementi annui più normali. Mentre per quelli al netto di energetici e alimentari la dinamica resta contenuta e potrebbe addirittura scendere, come ricaduta dei guadagni di produttività che la ripresa porta con sé. Specie in Usa, dove i margini sono già elevati; meno nell'area euro, dove questi sono stati compressi dai maggiori costi unitari. Le quotazioni delle materie prime stanno oscillando vistosamente, ma si mantengono vicino ai massimi toccati a gennaio. Gli investimenti finanziari ci mettono lo zampino; fanno però leva sulle aspettative di domanda legate alla ripresa.
Tassi, valute, moneta Primo: la politica monetaria, si dice giustamente, ci mette tempo ad agire e quindi deve essere messa in opera avendo occhio a dove l'economia sarà fra 6-9-12 mesi, e non dove è hic et nunc. Secondo: la politica monetaria si fa anche con gli annunci e non solo con le manovre sui tassi o sulla quantità di moneta. Mettendo assieme il "primo" e il "secondo", come giudicare l'aumento del tasso di sconto americano?
La prima cosa da dire è che la Fed ha fiducia nella convalescenza dell'economia. Lo strepitoso aumento del Pil Usa nel trimestre passato (5,7% a tassi annualizzati) deve molto al minor decumulo di scorte, ma anche la domanda finale interna (quella "privata", che esclude un'anomala riduzione delle spese pubbliche) è aumentata a un tasso superiore al 2%. E il pacchetto degli stimoli di bilancio implementati l'anno scorso ha ancora strada da fare. Insomma, l'annuncio della Fed, anche se privo di contenuti reali (il tasso di sconto, a differenza di quello sui Federal Funds, "abbaia ma non morde") porta con sé quel giudizio positivo sull'economia. Se la Fed avesse avuto paura di ricadute (la famosa "W") non avrebbe dato questo segnale di inversione di marcia della politica monetaria.
Più importante della manovra sul tasso di sconto, è, anche se largamente annunciato, l'arresto – anzi, una vera ritirata – della politica di espansione quantitativa (EQ) della moneta. I vari programmi messi in opera l'anno scorso vanno naturalmente a termine, alla scadenza le linee di credito straordinarie non vengono rinnovate e/o i programmi di acquisto di titoli vengono sospesi. Nel primo caso il rimborso dei beneficiari viene a ridurre la quantità di moneta, nel secondo caso si ha una "creazione cessante". E intanto continuano, sia pure in modo saltuario, i rimborsi degli aiuti pubblici concessi a banche e imprese (perfino la General Motors ha annunciato che vuole cominciare a restituire soldi a partire da giugno).
La exit strategy, insomma, è stata avviata. Naturalmente, questa è la parte più facile. Se al paziente viene tolta la fleboclisi, questo non vuol dire ancora che sia guarito. Ma almeno, non è più in sala rianimazione. Ulteriori passi nella "strategia di uscita" saranno in presa diretta con gli andamenti dell'economia reale e non solo con quelli (già migliorati) dell'economia finanziaria. Sarebbe bello, a proposito di exit strategy, se l'uscita dai deficit e debiti pubblici fosse sollecita e liscia come si preannuncia nel caso della moneta. Ma naturalmente, in questo caso le cose sono più complicate.
L'economia reale non cammina ancora sulle sue gambe, anche se comincia a fare i primi incerti passi, e il "girello" di una politica di bilancio espansiva è ancora necessario. Dal punto di vista degli effetti del bilancio sull'economia, quel che conta non è ormai il livello del deficit ma solo la sua variazione rispetto all'anno precedente; e, a conferma del fatto che la exit strategy è (giustamente) ancora nel grembo degli dei, sia nell'Eurozona che in Usa e Giappone i deficit del 2010 sono più grossi di quelli del 2009 (anche se, sia detto per inciso, dei paesi Piigs – uno sprezzante e, per l'Italia, ingiusto acronimo che comprende Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia, Spagna – solo l'Irlanda vede quest'anno un allargamento del disavanzo pubblico).
In campo valutario, la notizia del mese è il rafforzamento del dollaro. Un rafforzamento che molti vedono legato più a una autonoma debolezza dell'euro che a un merito speciale del biglietto verde. Tuttavia, dall'inizio di dicembre a oggi il dollaro si è apprezzato – e non di poco, circa il 3,5% – anche in termini di cambio effettivo. Segno che ci sono fattori autonomi di forza: un differenziale di crescita – temperie congiunturale più vivace – e un differenziale di tassi, almeno in prospettiva, dopo il segnale sul tasso di sconto Usa.