Questo articolo è stato pubblicato il 01 ottobre 2010 alle ore 08:48.
Indicatori reali È la nuova parola simbolo per descrivere questa strana fase della congiuntura globale. «Ripresa» appare a molti un termine forte e improprio perché in tempi normali implica un ritorno rapido alla situazione pre-crisi sia nei livelli sia nei trend. Ma il periodo di recupero si profila lento e lungo, consono a quello di un convalescente dopo un infarto: non si può certo pretendere che scatti come un velocista. Anche se a volte i malati stupiscono per la rapidità dei progressi.In effetti, non è escluso che la convalescenza si riveli più rapida del previsto, soprattutto in alcune economie (Usa in testa).
Ma nel complesso dei Paesi avanzati il quadro appare di risalita faticosa e graduale. Questo è il primo indizio dell'anomalia del quadro presente. Il secondo è che a trainare il mondo fuori dalla crisi sono le economie che una volta si sarebbero dette «vere» e quindi «deboli». Mentre quelle «ricche» e «forti» (all'interno di alcune delle quali la crisi è stata generata) vanno a rimorchio.
Queste dinamiche non sono nuovissime, in realtà. E' dal principio degli anni Duemila che il contributo alla crescita globale dei Paesi emergenti sopravanza quello degli avanzati (se prendiamo i dati in parità di potere d'acquisto). Ed è da qualche tempo che le «Lancette» li indicano come motore dello sviluppo. La crisi da un lato ha fornito la riprova di ciò e dall'altro ha costituito una sorta di test di resistenza della loro capacità di autosostenibilità rispetto a quanto accade nelle economie già emerse e dunque di costituire effettivamente una gamba in più.
Mentre i sistemi economici avanzati sono caduti in recessione, in alcuni casi anche profonda, quelli emergenti nel loro insieme hanno retto l'urto, grazie anche alle risposte delle proprie politiche di bilancio e monetarie. Quelle che non ce l'hanno fatta a tenere (nell'Europa dell'Est e, in misura minore, nell'America Latina) è perché hanno subito la fuga dei capitali richiamati dalla periferia al centro per sopperire la siccità di liquidità delle istituzioni finanziarie e delle imprese tout court.
L'ultimo scenario dell'Fmi certifica il capovolgimento dei ruoli nell'economia mondiale. Seppure parziale e dinamico, perché in termini di stazza, e soprattutto a cambi correnti che sono quelli che contano per i fatturati delle aziende, i mercati avanzati restano di gran lunga i più importanti. Guardando avanti, e la crisi ha aperto uno squarcio sul futuro e ha costretto a rivolgere lo sguardo avanti per capire quali saranno i propulsori dello sviluppo, i Paesi emergenti offriranno sbocchi sempre più ampi. Come è normale che sia, essendo nazioni con popolazioni enormi e protese a conquistare livelli di benessere occidentali.
Riportando l'osservazione al presente, la messe di dati dell'ultimo mese ha confermato che la è proseguita, anche se probabilmente in misura meno decisa di quanto atteso. L'errore comune è di pensare che i miglioramenti siano lineari e continui, mentre perfino in epoca tranquilla la crescita non avviene senza strappi e scossoni. E' probabile che, contrariamente a quanto si legge in molti report, il 2009 sia terminato in alcune economie (specie europee) in tono minore e il 2010 invece inizi con più slancio.
Conforta comunque che la direzione di marcia sia comunque quella giusta. La produzione industriale registra incrementi un po' ovunque. Tuttavia, le statistiche sono meno brillanti rispetto a quanto suggeriscono i segnali molto più positivi contenuti negli indicatori Pmi. Anche dentro il settore industriale, in effetti, il recupero non è affatto omogeneo e le imprese meno strutturate rimangono indietro. Tra le nazioni, in testa c'è il Giappone, dove però il crollo era stato nettamente maggiore. Nell'area euro spicca la Germania, mentre l'Italia appare indietro.
Inflazione La temperatura dei prezzi al consumo sale, ma non è febbre. Se c'è una malattia endemica nel sistema economico globale attuale è la deflazione. Lo era prima della crisi, lo è a maggior ragione oggi con l'enorme quantità di risorse (capitale fisico e umano) inutilizzate. Quella risalita fa parte della normalizzazione, incorporando i maggiori prezzi delle materie prime che riflettono sia il risveglio della domanda sia i tagli di offerta. Al netto di energetici e alimentari, la temperatura dei prezzi al consumo è inferiore ai livelli pre-crisi.
Tassi d'interesse, valute, moneta La politica di espansione quantitativa della moneta (EQ), risposta corretta e coraggiosa alle devastazioni della Grande recessione, è entrata ormai nella fase di ridimensionamento. Alcune misure di rifinanziamento verranno naturalmente a scadere e le autorità monetarie non devono far altro che non rinnovarle. É ironico ricordare che il non-rinnovo di linee di credito per i finanziamenti all'ingrosso di tante società finanziarie fu una delle cause scatenanti della crisi finanziaria che poi tralignò in crisi reale. La politica monetaria, pur nella varietà immaginifica dei suoi interventi, ha da allora essenzialmente sostituito linee di credito pubbliche a linee di credito private, esattamente come, nel campo parallelo della finanza pubblica, la spesa pubblica è venuta a sostituirsi alla spesa privata.
Ma mentre allora le linee di credito alle Siv e alle banche di investimento non furono rinnovate per i timori di default dei prenditori di fondi, questa volta il mancato rinnovo da parte delle banche centrali riflette un giudizio più rassicurante: la salute del sistema bancario è migliorata, come migliorerebbe la salute di qualunque azienda il cui costo degli input (il denaro raccolto a breve) si è ridotto quasi a zero, mentre i ricavi che vengono dall'output (il danaro impiegato a lunga) sono un multiplo dei costi.
L'ultimo esempio di questo cauto ritiro dalle generose procedure della EQ viene dalla Cina: la banca centrale ha aumentato il coefficiente di riserva obbligatoria, sottraendo così un po' di combustibile al falò dei prestiti che stava surriscaldando l'economia. A parte alcuni isolati casi (Australia, Israele, Norvegia) i tassi a breve rimangono fermi, ma anche qui si sta accorciando l'orizzonte di 'fermezza' e si levano alcune voci per invocare una politica monetaria pre-emptive: ricordando cioè che gli aumenti dei tassi ci mettono tempo ad avere effetti sull'economia e quindi se si vuole normalizzare il costo del danaro bisogna farlo per tempo.
I mercati ad ogni modo non si sono fatti pregare per recepire questi timori, e nella parte non controllata dalle banche centrali - i tassi a lunga - si sono registrate alcune pressioni al rialzo. In termini di tassi reali il discorso è più complicato. Deflazionando i tassi con i prezzi al consumo headline, il costo reale del danaro appare addirittura diminuire (meno in Giappone, per effetto della deflazione), ma i prezzi in questi mesi sono strattonati dai soliti vagabondaggi dei prodotti energetici. Usando l'inflazione di base (core) il leggero aumento dei tassi nominali si trasmette al costo reale del danaro.
In campo valutario, più che le oscillazioni fa notizia l'immobilismo, in particolare quello del cambio dollaro/yuan. Da quando la Cina tagliò il cordone ombelicale col dollaro (luglio 2005) non c'era mai stato un periodo di così limitata flessibilità del cambio fra moneta cinese e moneta americana. Più gli Usa, l'Europa e gli organismi internazionali lanciano pressanti inviti alla Cina perché faccia rivalutare la sua moneta, più il governo cinese reagisce con quello che sembra ormai uno sberleffo valutario, accorciando il guinzaglio al cambio. Più sottili, penetranti e supplichevoli si fanno gli inviti a far apprezzare lo yuan - è meglio per l'Occidente, è meglio per la Cina stessa, è meglio per tutti... - più la Cina fa orecchio di mercante. E se avessero ragione loro? bisogna stare attenti quando si desidera fortemente qualcosa. Che cosa succederebbe, infatti, se la Cina allentasse in toto le briglie del cambio e lo lasciasse andare dove vuole il mercato?
Il forte surplus corrente militerebbe in favore di uno yuan più forte. Ma i movimenti di capitale spingerebbero nella direzione opposta. Gli immensi risparmi dei cinesi sono recintati in patria e, se non altro per ragioni di diversificazione, la liberalizzazione valutaria porterebbe a un deflusso di capitali che potrebbe essere anche più forte dell'avanzo corrente, spingendo al ribasso lo yuan, come già successe in passato per la moneta di un altro paese - il Giappone - ad alto surplus esterno.