Questo articolo è stato pubblicato il 01 ottobre 2010 alle ore 11:05.
Indicatori reali Nuovo inciampo all'orizzonte? Un anno fa di questi tempi pochi credevano nell'esistenza di germogli di ripresa, tanta era l'ansia e l'angoscia generate dalla violenta caduta che in pochi mesi aveva riportato indietro di molti punti percentuali il Pil e falciato un quarto della produzione industriale. E tra quei pochi, a parte le Lancette, i più affermavano che la ripresa sarebbe stata a W, cioè una partenza seguita da una nuova recessione; e altri ritenevano che l'economia stesse in piedi e avanzasse come un pugile suonato solo perché sostenuta dalle stampelle artificiose di tassi minimi e deficit pubblici massimi. Tolti gli uni e gli altri, come prima o poi sarebbe stato necessario, si sarebbe accasciata nuovamente.
Oggi che resta di quelle profezie? Non molto, perché la ripresa si è rivelata più forte e diffusa dell'atteso, grazie agli stessi meccanismi di interconnessione tra le economie che prima avevano esasperato la caduta. Ma quel che rimane basta per reingenerare nuove paure recessive, soprattutto in Eurolandia. Perché qui è scoccata l'ora di togliere una delle due stampelle, quella dei deficit pubblici (vedi sotto).
Ma le politiche espansive non sono il motore della crescita, che è invece costituito dalle iniziative imprenditoriali accompagnate da condizioni generali di fiducia che fanno speculare (sì, anche questa è speculazione) imprese e famiglie riguardo al futuro. Quelle politiche servono a ripristinare tali condizioni, lasciando poi che il flusso della produzione, del reddito e della domanda sgorghi autonomamente.
Vero che quelle politiche adesso tendono, per quel che riguarda la leva del bilancio pubblico, non solo a essere ritirate. Ma anzi vengono rimpiazzate da misure restrittive. In queste circostanze è facile temere che si possa ricadere in una nuova recessione. In realtà, l'esito del cambio di terapia dipendente dallo stato di salute del paziente. Oltre che dal modo in cui il risanamento dei conti pubblici avviene: più strutturale, graduale e credibile è, più chiarisce l'orizzonte e stabilizza le aspettative dando una mano ai privati a riprogettare il futuro.
Lo stato di salute, ora, è pimpante. Gli indici PMI, prima di ripiegare un po', erano saliti a massimi talvolta storici nel manifatturiero, il più colpito dalla crisi rimbalza anche di più, sebbene in alcuni comparti i divari con i livelli pre-recessione restino impressionanti (fino al 50%). La fiducia oscilla, al di qua e al di là dell'Atlantico, e certo non è ai picchi, casomai su livelli coerenti con fasi di difficoltà (in Germania però è più alta): troppo incerto è il destino di molte aziende e posti di lavoro; ma non c'è l'aria di smarrimento di dodici mesi fa. Le fibrillazioni delle Borse non rincuorano: l'impressione è che più che scontare nei prezzi la frenata futura non sappiamo bene che pesci prendere di fronte a quel che pare un fisiologico rallentamento. Il rischio di selezione del credito rimane elevato, ma le banche stanno rifocalizzandosi per far prestiti a imprese e consumatori.
La differenza fondamentale tra questa esperienza e le precedenti è che c'è un motore autonomo di sviluppo globale costituito dai paesi emergenti, che sono passati dal fornire il 40% della crescita mondiale negli anni 80 e 90, e per di più dipendendo dalla congiuntura delle economie avanzate, a dare quasi il 70%, e in modo autonomo perché incentrato sull'aumento della domanda interna. Certo, da soli non possono tutto, ma bastano a tener su domanda globale e ciò anima la progettualità delle imprese.
Inflazione Dei tanti rischi, questo è il meno concreto. Perfino le materie prime si sono stabilizzate sugli attuali livelli da sette mesi. E i prezzi al consumo core sono sotto l'1%, con differenze marcare tra gli europaesi. Casomai, prevalgono le spinte deflazionistiche. Pericolose, con tutti i debiti che ci sono in giro. Per fortuna i salari cinesi salgono e ciò aiuta a contrastare quelle spinte.
Tassi d'interesse, valute, moneta La crisi del debito sovrano in Europa ha offerto l'occasione per un affascinante esperimento di politica economica che, se pure riguarda in prima battuta la politica di bilancio, ha importanti implicazioni anche per i tassi di interesse e le valute. Nei mesi scorsi il dibattito sulla crisi e le politiche messe in opera per fermare la spirale depressiva aveva raggiunto i limiti dell'angoscia: sì, è stato giusto spendere e spandere facendo dilagare l'inchiostro rosso dai bilanci pubblici, ma adesso cosa facciamo con questi deficit e questi debiti? All'orizzonte si profilavano sterminati fardelli di debito che avrebbero tolto gradi di libertà alla politica economica e minato la solidità della ripresa. Ma qual era la soluzione? Pesanti correzioni, hic et nunc, avrebbero ripetuto l'errore degli anni Trenta, quando, in nome del riacquisto della virtù di bilancio, una intempestiva restrizione trasformò la recessione in depressione. La soluzione fu un po' pilatesca: bisognava correggere, ma non subito, e render pubblica una strategia credibile di rientro dal deficit, lavandosi le mani dei disavanzi presenti.
Questo "saggio" proponimento è stato spazzato via dai mercati che hanno, a torto o a ragione, considerato insostenibile la posizione della Grecia e, attaccando i titoli ellenici, hanno esteso il contagio agli altri paesi in odore di bilanci difficili (praticamente tutti). Per questo alle doverose correzioni del bilancio pubblico greco si sono presto aggiunte le correzioni degli altri; e non solo dei paesi devianti, ma anche di quelli di recente virtù (Italia) e di antica diligenza (Francia, Germania...). Il risultato è stata una generale corsa al risanamento, che ripropone tuttavia l'interrogativo di fondo: si rischia una ricaduta, commettendo lo stesso errore degli anni Trenta? La risposta fa perno sulla gradualità e sulla credibilità delle misure correttive. Così come sono state annunciate, queste sono, come si conviene, più severe per Grecia, Portogallo e Irlanda, e sostanziose ma meno dolorose (e distribuite su un arco di tempo più lungo) per Spagna, Italia, Francia e Germania. Gradualità e credibilità sono però erose dal fatto che queste misure sembrano una affannosa reazione (in ordine sparso) alle pressioni dei mercati che più una strategia comune dell'area euro. Soppesando fattori negativi e positivi, si ha tuttavia l'impressione che queste correzioni non impediscano una continuazione della ripresa, che ha dalla sua una forza inerziale più intensa di quanto si pensasse.
Tanto più che ci sono delle compensazioni per i paesi dell'euro. La politica monetaria continuerà a essere espansiva per un periodo più lungo rispetto alla situazione pre-crisi da debito sovrano. La provvista di liquidità continuerà a essere illimitata e i tassi-guida saranno mantenuti all'1 per cento. Sul comparto a lunga sono venute alla luce le differenziazioni tra paesi che per molto tempo erano state spazzate via sotto il tappeto dell'unica moneta. Ma la "politica monetaria unica" non è la stessa cosa delle condizioni monetarie uniche: i tassi sui titoli pubblici sono ormai molto diversi e, nella misura in cui riflettono avversione al rischio, anche il costo del danaro a lunga per produttori e consumatori viene a differenziarsi. La politica di bilancio restrittiva si accompagnerà, insomma a una politica monetaria espansiva sul comparto a breve e a condizioni monetarie variegate nel comparto a lunga.
Quanto all'euro, l'annuncio della sua morte, come diceva Mark Twain a proposito di un suo necrologio, è prematuro. L'euro è qui per rimanere, come ha detto Mario Draghi, e le sue quotazioni obbediscono, come si è visto ieri ai normali fondamentali e sono sulla media o sopra la media della storia, ormai non breve, della moneta unica. Mentre la correzione della politica valutaria cinese è cosmetica. Quel che conta è la rivalutazione reale dello yuan promossa da salari che crescono a due cifre, e questa continuerà.