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Economia Aziende

Il terzo settore vince con più reti

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Questo articolo è stato pubblicato il 04 ottobre 2010 alle ore 08:04.


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Elio Silva
Progettazione condivisa, partnership gestionali, alleanze strategiche. Il cantiere del no profit e, più in particolare, l'impresa sociale sta offrendo, negli ultimi mesi, segnali inequivocabili di accelerazione sul fronte delle collaborazioni. Esaurita la spinta alla crescita numerica, che aveva caratterizzato gli anni scorsi, la scelta delle organizzazioni è ora quella di espandere per quanto possibile le pratiche collaborative. Con una novità: per la prima volta rallentano i rapporti con le pubbliche amministrazioni, che pure rappresentano ancora la forma di partnership più comune, e calano anche quelli con le imprese, condizionati dal contesto della crisi economica. A crescere, invece, sono le alleanze all'interno dello stesso mondo no profit, ossia le relazioni e le reti operative tra organizzazioni diverse, che fanno squadra intorno a obiettivi condivisi.
Il trend
Sono i dati dell'osservatorio Isnet sull'impresa sociale, pubblicati pochi giorni fa, a segnalare il trend: l'ente locale resta l'interlocutore privilegiato, ma la quota di organizzazioni che dichiarano rapporti in diminuzione passa dal 6,5% del 2008 e dall'11,8% del 2009 al 16,8 per cento. Negativi anche gli indici di gradimento: diminuiscono i «soddisfatti» (al 34%) e aumentano gli «insoddisfatti» (al 28%). Andamento analogo nelle relazioni con le imprese: la crisi di molte aziende ha determinato conseguenze anche nelle partnership commerciali. Le organizzazioni con rapporti in diminuzione, che erano il 13% nel 2009, sono ora il 17,3%, mentre quelle con alleanze in aumento calano dal 22 al 16 per cento. Le relazioni con altre organizzazioni no profit sono le uniche ad aumentare, sia pure di poco (dal 31 al 32,8%).
Per Carlo Borzaga, presidente di Iris Network, la rete degli istituti di ricerca sull'impresa sociale, queste criticità sono congiunturali, mentre la dinamica di fondo resta positiva. In particolare, lascia ben sperare il processo di differenziazione e innovazione, che sta portando le organizzazioni a occupare spazi economici con formule inedite. «Dalla sanità leggera all'housing sociale – afferma Borzaga – sono oltre 20mila i soggetti che fanno impresa, con 350mila addetti e cinque milioni di utenti. Basta ricordare, per avere un'idea di quanto sia vivace il fenomeno, che abbiamo oltre 3.500 cooperative di inserimento lavorativo, delle quali un migliaio operano con i carcerati».

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Da qui la convinzione che «il vero problema è il mancato riconoscimento da parte della politica. Non ci sono forme di sostegno – commenta Borzaga – né benefici fiscali, né strategie di sviluppo dell'impresa sociale: mentre nel Regno Unito il governo Cameron lancia il progetto di una Big Society qui da noi, dove la società civile è anche più radicata, si naviga a vista».
Modelli di sviluppo
Ma l'impresa sociale, alla luce del timido esordio dopo l'istituzione con il decreto legislativo 155/06, potrebbe sostenere il decollo di una Big Society all'italiana? Per Paolo Venturi, direttore di Aiccon, centro studi sulla cultura no profit promosso da università di Bologna e organizzazioni del Terzo settore, «l'investimento sulla società civile, come soggetto in grado di intervenire direttamente nella produzione di beni e servizi di protezione sociale, richiede di fare i conti con la solidità delle sue istituzioni. Non basta stimolare la domanda, o lavorare sui parametri di efficienza delle unità di offerta, prendendo a riferimento tecniche aziendali. Quello che serve, piuttosto, è completare il percorso di Institution Building avviato dagli anni Novanta, per dotare i soggetti del sociale di un sistema giuridico adeguato».
Secondo Flaviano Zandonai, segretario di Iris Network, quella dell'impresa sociale è la veste più adatta, ma «se fino ad oggi lo sviluppo è avvenuto espandendo e qualificando la sfera del welfare pubblico, oggi è evidente che questo ciclo non è in grado di compiere un ulteriore salto di qualità. E non è solo un problema di tagli nei trasferimenti agli enti locali: le vie del welfare si moltiplicano perché cambiano i bisogni e gli stili di vita». «Per questo – conclude Zandonai – servirebbe una spinta alla liberalizzazione del settore, dei suoi modelli organizzativi e dei campi di attività».
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