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Economia Gli economisti

Rettitudine prematura

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Questo articolo è stato pubblicato il 05 ottobre 2010 alle ore 18:21.


NEW YORK – L’insistenza dell’amministrazione Obama sulla rettitudine fiscale è dettata non da necessità finanziarie, bensì da considerazioni politiche. Gli Stati Uniti non sono uno di quei paesi d’Europa maggiormente indebitati, che devono pagare cospicui premi a fronte dei prestiti contratti dalla Germania. I tassi di interesse sui titoli di Stato Usa sono scesi fino quasi a raggiungere livelli record, il che significa che i mercati finanziari prevedono una deflazione, e non un’inflazione.

Ciononostante, Obama è sotto pressione politica. L’elettorato americano è profondamente preoccupato del debito pubblico accumulato, e l’opposizione repubblica è stata abile nel far ricadere le colpe del crollo del 2008 – nonché la successiva recessione e l’alta disoccupazione – sull’inettitudine del governo, oltre a sostenere che il pacchetto di stimolo sia stato largamente inutile.

C’è un elemento di verità in questo, ma è univoco. Il crollo del 2008 è stato essenzialmente un fallimento dei mercati, per il quale i regolatori Usa (e altri) dovrebbero essere biasimati per non essere riusciti a tenere sotto controllo la situazione. Ma, senza un salvataggio, il sistema finanziario sarebbe rimasto paralizzato, e avrebbe reso la successive recessione decisamente più profonda e prolungata. Vero è che il pacchetto di stimolo Usa è stato ampiamente inutile, ma ciò è accaduto perché la maggior parte di questi incentivi è servita a sostenere i consumi piuttosto che a correggere gli squilibri di base.

Ciò che l’amministrazione Obama ha sbagliato è stato il come ha deciso di salvare il sistema bancario: ha aiutato le banche a trovare la propria via d’uscita dal baratro acquistando alcuni dei loro peggiori asset e fornendo loro denaro a basso interesse. Anche questa scelta, fu guidata da considerazioni politiche: sarebbe stato più efficace iniettare nuovi titoli azionari nelle banche, ma Obama temeva le accuse di nazionalizzazione e socialismo.

Quella decisione si è ritorta contro, con serie ripercussioni politiche. I cittadini, che affrontavano un’impennata dei costi delle carte di credito dall’8% a quasi il 30%, vedevano le banche guadagnare eccezionali profitti e pagare grandi bonus. Il movimento dei Tea Party ha sfruttato tale risentimento, e oggi Obama è sulla difensiva. I repubblicani si battono contro qualsiasi altro tipo di stimolo, e ora l’amministrazione deve appoggiare, suo malgrado, la rettitudine fiscale, pur riconoscendo quanto sia prematura una riduzione del deficit.

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Tags Correlati: Europa | George Soros | Giappone | Inflazione | Obama | Simona Polverino | Soros Fund Management | Stati Uniti d'America | Tea

 

Credo ci siano forti argomentazioni a favore di un ulteriore stimolo. Ad onor del vero, i consumi non potranno essere sostenuti all’infinito accumulando debito nazionale; lo squilibrio tra consumi e investimenti necessita di misure correttive. Ma tagliare le spese del governo in un momento di disoccupazione su vasta scala sarebbe come ignorare quanto ci ha insegnato la storia.

La soluzione ovvia è quella di fare una distinzione tra investimenti e consumi correnti, e incrementare i primi a favore di una riduzione dei secondi. Ma sembra una posizione insostenibile dal punto di vista politico. La maggior parte degli americani è convinta che il governo sia incapace di gestire in modo efficace gli investimenti volti a migliorare il capitale fisico e umano del paese.

E di nuovo, questa convinzione non è ingiustificata: un quarto di secolo trascorso a etichettare il governo come inadeguato ha prodotto un governo inadeguato. Ma la tesi secondo cui le spese di stimolo sarebbero del tutto inutili è evidentemente falsa: il New Deal ha dato vita alla Tennessee Valley Authority, al Triborough Bridge a New York e a numerose altre autorità pubbliche tuttora in attività.

Inoltre, la semplice verità è che il settore privato non sta dispiegando le risorse a disposizione. Obama si è mostrato davvero ben disposto nei confronti delle aziende, e le società si stanno rivelando molto proficue. Queste, però, invece di investire, accumulano liquidità. Forse una vittoria repubblicana potrebbe incoraggiare la loro fiducia, ma nel frattempo investimenti e occupazione richiedono uno stimolo fiscale (è più probabile che, invece, lo stimolo monetario incoraggi le società a divorarsi l’un l’altra invece che ad assumere lavoratori).

Stabilire a che punto il debito pubblico sia eccessivo non è semplice, perché la sopportazione del debito pubblico dipende fortemente dalle percezioni prevalenti. Il premio al rischio collegato al tasso di interesse è la variabile critica: una volta che inizia a crescere, il tasso esistente di finanziamento in disavanzo diventa insostenibile. Ma il punto di non ritorno è indefinito.

Consideriamo il Giappone, con un indice debito/Pil quasi vicino al 200% – uno dei più alti al mondo. Eppure i bond decennali rendono poco più dell’1%. Il Giappone vantava un tempo un elevato tasso di risparmio, ma attualmente questo valore è quasi pari a quello degli Stati Uniti, a fronte di un invecchiamento e di una riduzione della popolazione. La grande differenza – il surplus commerciale del Giappone rispetto al deficit degli Usa – non è rilevante fino a quando la politica monetaria cinese continuerà ad obbligare il paese ad accumulare asset in dollari in una forma o in un’altra.

La vera ragione dei bassi tassi di interesse del Giappone sta nel fatto che il settore privato del paese è poco orientato agli investimenti all’estero e preferisce i titoli di Stato decennali all’1% ai contanti allo 0%. A fronte del calo dei prezzi e dell’invecchiamento della popolazione, i giapponesi considerano interessanti i rendimenti reali. Fino a quando le banche americane potranno contrarre prestiti a un tasso quasi pari a zero e acquistare titoli di Stato senza dover impegnare il proprio capitale, e il dollaro non si apprezzerà nei confronti del renminbi, i tassi di interesse sui bond decennali Usa potrebbero dirigersi in questa stessa direzione.

Questo non significa che gli Usa dovrebbero mantenere un tasso di sconto vicino allo zero e accumulare debito pubblico all’infinito. Una volta che l’economia inizierà a riprendersi, i tassi di interesse saliranno – forse all’improvviso, se il debito accumulato sarà troppo profondo. Ma, se da un lato questo frenerebbe la ripresa, dall’altro una politica prematura di tagli fiscali potrebbe accelerare tale processo.

La giusta politica è quella volta a ridurre quanto prima gli squilibri e a minimizzare al contempo il peso del debito. Tale strategia può essere perseguita in diversi modi, ma l’obiettivo fissato dall’amministrazione Obama – dimezzare il deficit di bilancio entro 2013 mentre l’economia funziona ben al di sotto delle proprie capacità – non rientra tra questi. Investire in infrastrutture e istruzione ha più senso. E anche manovrare un moderato tasso di inflazione deprezzando il dollaro nei confronti del renminbi.

Ciò che ostacola questa agenda non è l’economia, bensì le errate idee di deficit di bilancio, che vengono sfruttate a scopi politici e ideologici.

George Soros è presidente di Soros Fund Management.

Copyright: Project Syndicate, 2010.www.project-syndicate.orgTraduzione di Simona Polverino

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