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Economia Aziende

MICROCOSMI LE TRACCE E I SOGGETTI

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Questo articolo è stato pubblicato il 10 ottobre 2010 alle ore 08:03.

di Aldo Bonomi Recentemente si è parlato e scritto molto di UniCredit. Temi certamente non da microcosmi. Più da flussi che sorvolano i territori. Eppure, se si guarda attentamente, c'è molto da imparare dalla filosofia di Alessandro Profumo, che ha posizionato la banca italiana ad essere leader nella globalizzazione a medio raggio verso Est. Occorre andare oltre i consigli di amministrazione, guardare in basso e si troveranno tracce territoriali che val la pena raccontare, perché danno conto di come l'espansione di una grande impresa si intrecci e impatti con l'antropologia dei soggetti. Di quelli che a Est oggi hanno vent'anni, quelli nati nel 1989.
Born in '89 si chiama infatti un concorso di racconti organizzato dalla Banca Europea per lo Sviluppo insieme al Financial Times e alla rete territoriale di UniCredit. A seicento ragazzi e ragazze nati a Est è stato chiesto di scrivere la loro visione della vita e del mondo dopo l'89. I racconti sono stati giudicati da un panel di scrittori presieduti dal romanziere ucraino Andrei Kurkov. Storie di vita, sussurri che vengono da quel gigantesco interstizio che va dalla Polonia al Kazakhstan sino alla Siberia. Macedonie di grandi metropoli e comunità rurali, migranti e lavoratori a basso costo, big player dell'energia, nuovi imprenditori e terre di delocalizzazione produttiva della nostra Italietta. Ne emergono storie vibranti, conflittuali, confuse, voci di un margine che non sempre il centro ascolta e coglie. Ha vinto Ana, georgiana, con un racconto che parte dai suoi tre anni, quando il nonno per premiarla le dà alcuni milioni di kupons, la moneta georgiana di allora, e il babbo sorridente le diceva: «Solo tre anni e sei una milionaria. Più tardi, capirò il significato della parola inflazione. E che quei milioni non sono nulla». Come capirà perché la mamma le raccomandava di non affacciarsi alla finestra. E perché all'asilo il suo amichetto del cuore le prometteva che domani le avrebbe fatto vedere la pistola del papà. Fuori si sparava e la mamma le diceva «quando sei nata in questo paese è stato tutto un disastro, ma in un paio di anni sarà tutto Ok». «Sono più grande e vado a scuola» ci racconta Ana. «Non ci sono più sparatorie per strada, abbiamo una nuova moneta chiamata Lari. Con un Lari al giorno posso comprare qualcosa da mangiare alla mensa della scuola». Ana è abbastanza grande per rendersi conto della corruzione. Non si ottengono buoni voti se non si segue il doposcuola pagamento. Il fratello deve pagare 200 dollari per ottenere un diploma. E quando ti rubano la macchina si pagano i clan criminali per riaverla indietro. Ma la mamma continua a dire «quando sei nata era tutto un disastro. Ma in un paio d'anni sarà tutto Ok». È diventata più grande. Ha vent'anni Ana. Ma scrive che basta prendere i mezzi pubblici, parlare con una signora di mezza età e questa esploderà con la rabbia di tutta una vita: «Marito disoccupato, figli pigri, madre malata, stipendio basso, governi precedenti inutili, primo governo immaturo, dannati comunisti!». La mamma continua a dirle che presto sarà tutto ok, ma lei amara scrive: «Chi avrebbe mai immaginato che la Georgia sarebbe rimasta incastrata per sempre tra un passato sovietico e un futuro europeo, facendo continuamente un passo avanti e uno indietro?».

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Tags Correlati: Aldo Bonomi Recentemente | Alessandro Profumo | Andrei Kurkov | Banca Europea | Dominique Moisi | Europa | Politica | Russia

 

Leggendo anche le altre storie di vita colpisce come il racconto sia concentrato sul passato e sul futuro, saltando l'amarezza del presente. Nikoleta – bulgara di Sofia che la madre avrebbe voluto chiamare Democrazia – dice lucidamente: «La mia generazione è stata segnata dalla transizione e dalla consapevolezza di essere, a sua volta, una generazione di transizione». Consapevolezza amara di Martin, serbo di Kula, che scrive: «Non mi sono mai mosso da qui, ma il mio paese, da quando sono nato, ha cambiato nome quattro volte». «Avevo un anno quando il primo McDonalds ha aperto a Mosca» dice Nikita.
Nessuno ricorda il comunismo e tutti hanno presente il sogno dove vogliono arrivare: «Per noi Europa vuole dire destino. Il migliore destino possibile» afferma Igor, ucraino. Salvo poi aggiungere di sentirsi «messo ancora alla porta dall'Europa della nostra infanzia», come se ci fosse ancora la cortina di ferro tracciata dalle ansie xenofobe del vecchio continente, in bilico tra l'essere comunità aperta e fortezza. Spesso si legge una marcata disillusione nei confronti delle promesse del capitalismo e del sogno europeo: «Volevamo fare qualcosa nel mondo, oggi vogliamo solo delle scarpe da tennis nuove» riflette amara Ekaterina da Togliattigrad in Russia. Racconti di paure e di speranza nella convinzione che, come afferma Sergej, russo di Ramenskoe, «la caduta del muro ha liberato un'onda di energia, curiosità e creatività che quasi la gente ne ha avuto paura. Anche chi quell'energia la rappresenta». Ed è amara la constatazione di Maso, che scrive da un luogo simbolico come Srebrenica, che dice: «Siamo come le pecore, la nostra paura non è di finire macellati, ma di abbandonare il gregge». Poi c'è anche chi, come Tomina, bulgara di Ruse, afferma: «Noi siamo i futuri Nobel, quelli che salveranno il mondo dalla catastrofe ambientale». Per tutti vale la domanda della macedone Milica: «Essere nati nell'89 è un privilegio o una maledizione?». Racconti che UniCredit ha raccolto nel suo far banca nei territori che stanno ad Est che ci interrogano. Emozioni che ci collegano al saggio dello studioso Dominique Moisi che nel suo "Geopolitica delle emozioni" divide il mondo in tre grandi macroaree. Quella occidentale dominata dalla paura. Quella islamica dominata dalla rabbia. E quella dei paesi emergenti Brasile, India e Cina, con il tratto della speranza.
I 24 racconti dei giovani selezionati nel concorso racconto fanno emergere una grande area del disincanto. Perché, come ci ricorda la russa Nikita, citando una barzelletta amara della sua generazione, «tutto quello che i comunisti ci avevano raccontato del comunismo era una bugia. Sfortunatamente, quello che ci raccontavano del capitalismo era vero». È forse poco come segno di speranza, ma ben venga un fare impresa sui territori che ne riconosca e ne renda pubbliche amarezze e disincanti. C'è ancora molto da fare, ad Est.
bonomi@aaster.it
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