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Perché puntare il dito contro le grandi banche?

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Questo articolo è stato pubblicato il 11 ottobre 2010 alle ore 14:21.


LONDRA – Sembrava che un nuovo modello di governance globale fosse stato forgiato dal fuoco della crisi finanziaria. Ora, però, dalle ceneri raffreddate affiorano prospettive diverse sulla regolamentazione delle banche, da entrambi i versanti dell’Atlantico.
 
L’Europa si è concentrata sulla regolamentazione dei mercati finanziari con l’intento di fronteggiare le crisi future. Gli errori in termini di credito vengono fatti durante il boom, e non durante la successiva fase di contrazione, così si dice. Di conseguenza, una migliore politica monetaria e di regolamentazione durante gli anni di massima espansione potrebbe limitare la portata di qualsiasi tracollo futuro.

Per contro, gli Stati Uniti si sono dedicati alla scoperta di sistemi, in linea con il mercato, finalizzati a contenere le ripercussioni dei fallimenti bancari. Negli Usa i dibattiti politici sono per lo più orientati a garantire che le banche non siano più too big to fail (troppo grandi per essere lasciate fallire); che gli investitori privati, anziché i contribuenti, detengano capitale contingente (che in caso di crack può essere convertito in titoli azionari); e infine che i mercati over-the-counter funzionino meglio se affidati maggiormente a sistemi centralizzati di trading, clearing e settlement.

Il principale punto di intersezione tra l’approccio europeo e quello americano sono le grandi banche. Tale convergenza ha più a che fare con una comune necessità di rivestire un ruolo sul fronte politico e incrementare maggiormente il gettito fiscale , piuttosto che non con le idee di regolamentazione sulle dimensioni o sulle funzioni delle banche.
 
I bilanci bancari sono pericolosi a livello sistemico se ingolfati di debiti, ed è questo ciò di cui dovrebbero occuparsi le politiche di regolamentazione o fiscali attivando cuscinetti di liquidità e indici di indebitamento. Dopotutto, ciò che conta è il rischio di contagio delle crisi finanziarie, non le dimensioni delle banche. Qualsiasi lista che fosse stata in grado di individuare nel 2006 le istituzioni considerate too big to fail non avrebbe mai contemplato Northern Rock, Bradford & Bingley, IKB, Bear Sterns e nemmeno Lehman Brothers.

Le banche concedono prestiti alle banche, quindi se da un lato alcune hanno più attività illiquide di altre, dall’altro sono comunque tutte intrinsecamente istituzioni illiquide. Piccoli fallimenti possono innescare grande panico, il che significa che in una crisi sono quasi tutti too big to fail. La realtà è che possiamo andare incontro a un grande boom finanziario e a un conseguente tracollo come quelli appena vissuti, che porteranno alla stessa miseria economica, in un mondo fatto solo di piccole banche.

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Tags Correlati: Avinash Persaud | Bear Sterns | Capital Limited | Credito alle imprese | Europa | Gresham College | IKB | JPMorgan Chase | Onu | Simona Polverino | Task Force

 

Sono in molti a sostenere che la convinzione dei banchieri sul fatto che le proprie istituzioni siano troppo grandi per essere lasciate fallire e che i loro posti di lavoro siano al sicuro li incoraggia a sottovalutare i rischi che assumono. Se i banchieri fossero stati convinti di questo, avrebbero continuato a preoccuparsi di essere salvati. In altre parole, non si sarebbero fatti travolgere dalla vendita dei titoli azionari e di debito delle loro istituzioni.

Eppure è successo. Secondo un’analisi di preferenza rivelata sul comportamento di banche e banchieri, questi non hanno concesso più prestiti perchè pensavano di potersela cavare, ma perchè pensavano fosse sicuro. Sono stati stolti più che furfanti.
 
L’eccesso di prestiti e debiti è principalmente riconducibile a una visione errata di rischio, condivisa da tutti. Le istituzioni più rischiose non erano le più grandi: società come J. P. Morgan e HSBC si rivelarono più sicure di altre, e né cercarono né aveva bisogno di sussidi statali. Quelle che sono fallite erano abbastanza piccole, come IKB, Bear Sterns e altre.

Alle grandi banche piace pensare che la regolamentazione debba occuparsi meno delle dimensioni delle banche e più della loro rischiosità, e sono quindi a favore di un approccio sensibile al rischio – non da ultimo perché vantano il maggior numero di operazioni e database di gestione rischio, di conseguenza una regolamentazione sensibile al rischio sarebbe più onerosa per i loro competitori più piccoli. Ma questo approccio soffre di un errore fatale: se i boom sono alimentati da una sottovalutazione dei rischi, e la regolamentazione è resa più sensibile alla valutazione dei rischi, ci saranno maggiori boom e contrazioni più profonde.

Un migliore argomento a favore del contenimento delle dimensioni delle banche è l’influenza eccessiva delle grandi banche sulle linee di condotta. Ciò a cui dovrebbero aspirare i policymaker è una regolamentazione che renda il sistema finanziario meno sensibile all’errore nella valutazione del rischio nei mercati. Esistono due modi per farlo.

Il primo è quello di osservare che tale errore sia correlato al cosiddetto ciclo di boom-bust (ovvero una fase di espansione seguita da una forte contrazione). I boom hanno caratteristiche simili – forte crescita dei bilanci e del credito delle banche, e di conseguenza un incremento della leva finanziaria. Tali trend implicano che, molto probabilmente, il mercato sta sottovalutando il rischio, pertanto i regolatori del rischio sistemico dovrebbero alzare i requisiti di capitale minimo non appena ravvisano tali rischi.

I requisiti anticiclici di capitale sono coerenti con questa idea, e potrebbero essere impiegati una serie di indicatori per calibrare l’innalzamento dei requisiti di capitale, associati magari a un po’ di discrezione. Sono diversi i motivi per cui il mercato non riesce a correggere l’errore sistemico, incluso il fatto che i boom si fondano sempre sulla convinzione di regolatori e banchieri che questa volta è diverso. Non dimentichiamo i saggi contenuti negli stability report delle banche centrali che spiegano come i credit derivative abbiano favorito il settore finanziario.

Il secondo modo per ridurre la sensibilità del sistema finanziario agli errori di valutazione del rischio è quello di limitare il flusso di rischi verso quelle istituzioni che abbiano la capacità strutturale, e non statistica, di sostenere quel rischio. In questo modo, in caso di errori da parte delle società di gestione del rischio ci ritroveremo meno nei guai.

Il rischio di credito è coperto al meglio attraverso una diversificazione in tutti i crediti correlati. Il rischio di liquidità è coperto al meglio attraverso una diversificazione nel tempo mentre il rischio di mercato attraverso una combinazione di diversificazione tra gli asset e un’adeguata tempistica di vendita. In passato, i rischi con volatilità di rilevanza statistica simile erano considerati generici, e potevano colpire chiunque fosse preparato a sostenerli.

Se da un lato le banche dotate di fondi a breve termine e di numerose filiali emittenti di mutuo hanno una profonda capacità di assumersi rischi di credito, dall’altro hanno una limitata capacità rispetto ai rischi di mercato e una scarsa capacità rispetto al rischio di liquidità. Le compagnie assicurative e i fondi pensione, dall’altro canto, hanno una limitata capacità di rischio di credito, ma una maggiore capacità per i rischi di mercato e liquidità.

La lezione per i regolatori è semplice: la capacità di rischio dipende dalla durata dei fondi, non dal modo in cui sono denominate le istituzioni.

Avinash Persaud, presidente di Intelligence Capital Limited e professore emerito del Gresham College di Londra, ha guidato il sottocomitato di regolamentazione della task force delle Nazioni Unite sulla riforma finanziaria.

Copyright: Project Syndicate/Europe’s World, 2010.www.project-syndicate.orgwww.europesworld.orgTraduzione di Simona Polverino

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