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Economia Gli economisti

Chi ha innescato le guerre valutarie?

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Questo articolo è stato pubblicato il 15 ottobre 2010 alle ore 13:46.


WASHINGTON, DC – Il mondo è sull’orlo di un duro confronto sui tassi di cambio – che ora sembra toccare anche altri punti, ovvero la politica commerciale (il flirt dell’America con il protezionismo), le posizioni nei confronti dei flussi di capitale (nuove restrizioni in Brasile, Thailandia e Corea del Sud) e il sostegno collettivo alla globalizzazione economica (crescente sentimento anti-straniero quasi ovunque). Chi deve essere ritenuto colpevole di questa situazione ormai fuori controllo, e cosa succederà ora?

Solitamente ci si chiede se alcuni paesi stiano truffando mantenendo i propri tassi di interesse a un livello artificiosamente basso, per incentivare le proprie esportazioni e limitare le importazioni, rispetto a quanto accadrebbe se invece le loro banche centrali lasciassero fluttuare liberamente la moneta locale.

Il principale colpevole secondo questa tradizionale visione è la Cina, sebbene seguita al secondo posto dal Fondo monetario internazionale. Ma, su più vasta scala, la gravità dell’odierna situazione è principalmente ascrivibile al rifiuto da parte dell’Europa di riformare la governance economica globale, associato ad anni di cattiva gestione politica e di illusioni negli Stati Uniti.

La Cina ha certamente delle responsabilità. In parte consapevolmente e in parte inconsciamente, la Cina si è trovata, circa un decennio fa, ad accumulare ingenti somme di riserve estere raggiungendo un surplus commerciale e facendo incetta di dollari. Nella maggior parte dei paesi, tale intervento tendeva a spingere al rialzo l’inflazione, perché la banca centrale emetteva moneta locale in cambio di dollari. Ma, poiché il sistema finanziario cinese resta fortemente controllato e gli investitori hanno opzioni limitate, non sono seguite le usuali spinte inflazionistiche.

Questo dà alla Cina la straordinaria capacità – senza precedenti per un grande paese commerciale – di accumulare riserve estere (oggi quasi vicine ai 3mila miliardi di dollari). Il surplus cinese delle partite correnti raggiunse, prima della crisi finanziaria del 2008, il culmine con un valore pari all’11% del Pil. E la lobby cinese dell’export si sta battendo ardentemente per mantenere il tasso di cambio all’incirca lì dove si trova ora rispetto al dollaro.

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Tags Correlati: America del Sud | Cina | DC | Europa | Fmi | Inflazione | MIT | Pubblica Amministrazione | Simona Polverino | Simon Johnson | Sloan School | Stati Uniti d'America | Wall Street

 

In linea di principio, il Fmi dovrebbe fare pressioni sui paesi con i tassi di cambio sottovalutati per far apprezzare le loro valute. , anche nel caso dell’incontro annuale appena conclusosi a Washington tra le banche centrali e i ministri delle Finanze mondiali. Ma la realtà è che il Fmi non ha potere sulla Cina (o su qualsiasi altro paese con un surplus delle partite correnti); il comunicato finale rilasciato lo scorso weekend è stato probabilmente .

Sfortunatamente, il Fmi è colpevole oltre ogni ragionevole dubbio. La sua gestione della crisi finanziaria asiatica nel 1997-1998 ha fortemente penalizzato i principali paesi dei mercati emergenti a medio reddito – i quali sono ancora del parere che il Fondo non abbia a cuore i loro interessi. In questo caso, gli europei occidentali rivestono un ruolo fondamentale, perché sono ampiamente rappresentati nel consiglio direttivo del Fmi e, malgrado le suppliche, si rifiutano semplicemente di consolidare i loro seggi per dare maggiore potere ai mercati emergenti.

Di conseguenza, i paesi dei mercati emergenti, che puntano a non avere bisogno del supporto finanziario dal Fmi nel prossimo futuro, stanno seguendo sempre più l’esempio della Cina e quindi cercano anch’essi di ottenere surplus delle partite correnti. Di qui il massimo impegno per evitare un apprezzamento delle loro valute.

Ma gran parte della responsabilità per le minacce economiche globali di oggi ricade sugli Stati Uniti, per tre ragioni. La prima: la maggior parte dei mercati emergenti sentono che le loro valute sono costrette ad apprezzarsi a causa dei crescenti afflussi di capitale. Gli investitori in Brasile ricevono rendimenti attorno all’11%, mentre rischi di credito simili negli Usa non rendono oltre il 2-3%. A detta di molti, sembra una scommessa a senso unico. Inoltre, è probabile che i tassi Usa resteranno bassi, perché il sistema finanziario americano è saltato completamente (con l’aiuto delle banche europee), e perché il ricorso a tassi di interesse bassi, per motivi interni, resta parte del mix politico post-crisi.

La seconda ragione: gli Usa hanno raggiunto un record nei deficit delle partite correnti durante lo scorso decennio, man mano che l’elite politica – Repubblicani e Democratici in modo simile – assecondava sempre più l’iperconsumismo. Tali deficit facilitano i surplus a cui ambiscono i mercati emergenti come la Cina – la bilancia delle partite correnti mondiali ammonta a zero, quindi il surplus di un ampio numero di paesi comporta il deficit di qualche altro grande paese.

I principali funzionari dell’amministrazione Bush erano soliti parlare del deficit delle partite correnti Usa come di un dono fatto al mondo esterno. Ma nella decade passata gli Usa hanno sinceramente spinto i consumi all’eccesso – vivendo ben oltre le proprie possibilità. L’idea che i tagli fiscali avrebbero portato un incremento della produttività e ripagato gli errori (e risanato il bilancio) si è rivelata del tutto illusoria.

Terza ragione: il flusso netto di capitale passa dai mercati emergenti agli Stati Uniti – ecco spiegato i surplus delle partite correnti nei mercati emergenti e il deficit negli Usa. Ma il flusso lordo di capitale passa da mercato emergente a mercato emergente, attraverso le grandi banche ora implicitamente sostenute dallo stato sia negli Stati Uniti che in Europa. Dal punto di vista degli investitori internazionali, le banche too big to fail sono il rifugio perfetto per parcheggiare le proprie riserve – fino a quando il governo sovrano in questione resterà solvente. Ma cosa faranno le banche con questi fondi?

Quando si presentò una situazione simile negli anni ‘70 – il cosiddetto riciclaggio di petrodollari – le banche nei centri finanziari occidentali decisero di estendere i prestiti all’America Latina, nonché alla Polonia e alla Romania comuniste. Non fu una buona idea, perché tale azione provocò una profonda crisi del debito (per l’epoca) nel 1982.

Ora stiamo andando più o meno nella stessa direzione, ma su più vasta scala. Le banche e gli altri attori finanziari sono assolutamente incentivati a gravare sul rischio man mano che ci avviciniamo a questa spirale; a loro spetta il lato positivo (i compensi di Wall Street quest’anno sono destinati a superare nuovamente ogni record) mentre il rovescio della medaglia ricade sui contribuenti.

Le guerre valutarie stesse sono soltanto una scaramuccia. Il vero problema è che il cuore del sistema finanziario mondiale è diventato instabile, e che l’infinita assunzione di rischio porterà nuovamente a enormi danni collaterali.

Simon Johnson, ex capo economista del Fmi, è co-fondatore di uno dei più importanti blog di economia, , docente alla Sloan School of management del MIT e senior fellow del Peterson Institute for International Economics.

Copyright: Project Syndicate, 2010.www.project-syndicate.orgTraduzione di Simona Polverino

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