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Questo articolo è stato pubblicato il 03 novembre 2010 alle ore 06:40.
«Incredibile, formativo, educativo. Spesso quando si parla di Erasmus si parla solo di feste e divertimenti: sbagliatissimo. Non dico che non ci siano, anzi, ma l'Erasmus è favoloso perché permette di crescere: ci si ritrova lontani da casa senza amici, senza famiglia, senza sapere di chi ci si possa fidare, senza un passato. E poi lingua nuova, posti nuovi, culture diverse. Si scoprono i valori della solidarietà, della comunione, dell'amicizia, dell'interculturalità».
L'Erasmus come porta d'accesso all'Europa per una generazione, quella dei venticinquenni d'oggi, chiamata a invertire la tendenza tutta italiana di vedere nella mobilità internazionale un ostacolo da evitare nella costruzione di una futura carriera professionale. Chi descrive questa esperienza è Davide Faraldi, l'autore di Generazione Erasmus (e adesso che fai?), pubblicato un paio di anni fa da Aliberti. Lo stesso titolo, appunto "Generazione Erasmus", che ha scelto il Campus Mentis 2010 promosso dal ministero della Gioventù in collaborazione con l'università La Sapienza di Roma per l'incontro che si terrà in collaborazione con Cegos questa mattina a partire dalle 10,30 presso il polo universitario di Pomezia. «La mobilità internazionale - spiega Paolo Longhi, director di Cegos Research Italia - è ormai diventata un prerequisito essenziale nelle politiche di recruiting delle imprese. Ecco perché siamo convinti che un'esperienza all'estero durante il periodo universitario sia un importante strumento per acquisire quella mentalità europea, quella sicurezza e quella consapevolezza che, in fondo, sono proprio gli skills che il mondo del lavoro oggi richiede a chi si appresta a entrarvici». I dati lo confermano. «A parità di capacità e di conoscenze - prosegue Longhi - le aziende tendono a prendere in considerazione quei candidati che hanno segnalato nel proprio curriculum la disponibilità a spostarsi. Tuttavia in Italia si fa ancora fatica ad accettare un trasferimento anche solo da Milano a Torino, figuriamoci all'estero». Non è una novità che, mentre molte grandi multinazionali sono venute a lavorare in Italia portando con sé i propri manager, la maggioranza delle nostre prime linee di executive veda come fumo negli occhi la possibilità di crescere nell'organizzazione aziendale solo spostandosi in un'altra città o in un'altro stato.