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Questo articolo è stato pubblicato il 04 novembre 2010 alle ore 00:26.
BRUXELLES – Da decenni il mondo si lamenta del ruolo rivestito dal dollaro come moneta di riserva globale perché conferisce agli Stati Uniti un «privilegio esorbitante», termine solitamente attribuito a Charles de Gaulle ma in realtà coniato dal suo ministro delle Finanze, Valery Giscard d’Estaing. Fino a quando i tassi di cambio venivano fissati secondo il sistema di Bretton Woods, la natura di questo privilegio era chiara: gli Usa erano l’unico paese a poter stabilire liberamente la propria politica monetaria. Agli altri non restava che adattarsi alla politica imposta dagli Usa.
Tale trend cambiò all’inizio degli anni ’70 con l’avvento dei tassi di cambio fluttuanti, che consentirono ai paesi più stabili, quali la Germania, di allontanarsi da una politica monetaria americana ritenuta troppo inflazionistica. Ma anche nel caso dei tassi di cambio fluttuanti, gli Usa detenevano un vantaggio: dal momento che il dollaro rimaneva la principale valuta di riserva globale, gli Stati Uniti potevano finanziare ampi disavanzi esterni a tassi altamente favorevoli.
Oggi il Tesoro Usa può ancora prendere in prestito somme illimitate a tassi di interesse stracciati. A dire il vero, il tasso di interesse sui bond protetti dall’inflazione è sceso ora a -0,5%, anche per quelli con scadenza quinquennale! Il governo americano viene quindi essenzialmente finanziato in termini reali attraverso il denaro degli investitori – un’offerta generosa che il governo sta accettando su vasta scala, nella speranza che incanalare tali risorse verso i consumatori americani favorisca la spesa delle famiglie e quindi generi più posti di lavoro.
Gli Usa sembrano essere molto vicini al proverbiale «free lunch» – se non fosse che, come ci tengono a precisare gli economisti, «there is no such thing as a free lunch» (non esistono pasti gratis), ovvero nessuno dà niente per niente. E non potrebbe essere diversamente anche in questo caso: grazie al ruolo di valuta di riserva gli Stati Uniti possono contrarre prestiti a tassi ridotti, ma rinunciano a influire in modo significativo sul tasso di cambio, che è determinato dalla domanda di asset in dollari da parte del resto del mondo.
La Germania se ne rese conto durante gli anni ’60 e ’70, e si oppose al trend del Deutschemark (DM) di diventare una valuta di riserva internazionale. Le autorità tedesche temevano che l’economica orientata all’export del paese avrebbe sofferto le ampie oscillazioni dei tassi di cambio, che sono la regola per le valute di riserve globali. Tuttavia, considerata la debolezza delle altre monete europee e il desiderio della Germania di mantenere aperti i mercati, i funzionari tedeschi non poterono fare molto.