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Economia Gli economisti

La trappola dell’hot money

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Questo articolo è stato pubblicato il 23 novembre 2010 alle ore 16:18.


SHANGHAI – La recente crisi finanziaria ha visto l’Asia emergere come potenza economica, o meglio, come forza trainante della crescita globale. Più o meno tra cinque anni, l’economia totale dell’Asia potrebbe essere più grande di quella di Stati Uniti e Unione europea messi insieme.

A dire il vero, mentre l’Asia cresce, i ricchi paesi industriali del vecchio G7 stanno cadendo nella trappola della liquidità. Dal momento che l’attuale recessione ha dato fondo ai tradizionali strumenti di politica monetaria, le banche centrali stanno optando per nuovi cicli di quantitative easing (QE). E con gli investitori a caccia di rendimenti appetibili, una maggiore espansione monetaria, soprattutto da parte degli Stati Uniti, riverserà hot money (flussi di capitali per investimenti in portafogli a breve scadenza) sui mercati emergenti ad alto rendimento, che potrebbero gonfiare pericolose bolle di asset in Asia, America Latina e in altre aree.

La Federal Reserve americana e l’amministrazione Obama restano retoricamente devote al mantenimento di un dollaro forte. Eppure, è l’indebolimento del dollaro ad incentivare gli utili societari a stelle e strisce dallo scoppio della crisi, spingendo il Dow Jones Industrial Average sopra gli 11.000 punti, per la prima volta da maggio. Dagli inizi del 2002, il dollaro ha perso un terzo del suo valore rispetto alle maggiori valute, e negli ultimi tempi tale declino si è intensificato.

Dalla fine di agosto, ossia dal momento in cui il presidente della Fed, Ben Bernanke, ha annunciato un altro ciclo di QE, il dollaro ha registrato un calo superiore al 7% rispetto a un ampio paniere di valute. I titoli protetti dall’inflazione vengono ora venduti per la prima volta con rendimenti negativi.

A seguito delle elezioni di midterm e della rinascita dei repubblicani nel Congresso americano, la decisione della Fed di iniettare 600 miliardi di dollari nell’economia entro metà 2011 potrebbe scatenare simili manovre nel Regno Unito, in Giappone e in altre economie avanzate. Inoltre, la Fed ha lasciato la porta aperta a un’abbondante iniezione di liquidità per il prossimo anno – quasi ad ammettere tacitamente che la ripresa sarà lunga e lenta. Tuttavia, l’effetto di un nuovo ciclo di QE sui tassi di interesse potrebbe essere lieve e limitato rispetto all’effetto annunciato, come indicano gli studi condotti dalla stessa Fed.

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Tags Correlati: America del Sud | Ben Bernanke | Chen Deming | Cina | Dan Steinbock | Fed | Franklin Delano Roosevelt | George W. Bush | Guido Mantega | Inflazione | Ocse | QE2 | Reserve Bank of India | Simona Polverino | Stati Uniti d'America

 

Di fatto, l’impatto complessivo del QE2 americano non sarà solo domestico, perché l’effetto reale sarà un dollaro più debole, dato che gli speculatori scommetteranno sul suo declino. Le successive ondate di QE servirebbero a svalutare il valore del dollaro, e di conseguenza a ridurre i massicci debiti Usa ricorrendo all’inflazione.

Nel frattempo, i paesi in via di sviluppo si stanno muovendo in direzione opposta. A ottobre, la People’s Bank of China, in risposta alla duplice minaccia di inflazione e bolle speculative, ha incrementato i tassi sui depositi e sui prestiti a un anno di 25 punti base, portandoli rispettivamente a 2,5% e 5,56% – i primi rialzi dal 2007.

In Occidente, i timori dell’impatto sulla crescita cinese hanno scatenato uno spaventoso sell-off nei mercati, ossia una massiccia vendita di titoli in previsione di quotazioni al ribasso. Già prima che entrasse in azione la Fed, la Reserve Bank of India aveva innalzato il tasso di interesse a breve di 25 punti base, portandolo al 6,25%, allo scopo di combattere l’inflazione, e ora la banca centrale cinese potrebbe anche tornare a ritoccare verso l’alto i tassi di interesse.

In Brasile, i tassi di interesse si attestano all’11%. Dopo l’operazione di QE della Fed, il Brasile si prepara a reagire. Non è affatto giusto lanciare dollari da un elicottero, apostrofa il ministro brasiliano delle Finanze Guido Mantega. Segue a ruota anche il ministro delle Finanze tedesco, che ha definito la politica americana deludente, mentre la sua controparte sud-africana pensa che la manovra della Fed comprometta lo spirito di cooperazione multilaterale dei leader del G20.

Oggi, un profondo dislivello globale divide gli Usa, caratterizzati da una lenta crescita, da molte economie dei mercati emergenti e paesi produttori di materie prime. L’impatto mondiale del QE ha solo acuito il divario, svelato dalle fratture tra le nazioni del G20. Dopo aver esaurito i tradizionali strumenti monetari, la Fed si muove ora su un terreno inesplorato, che potrebbe implicare risultati imprevedibili e danni collaterali senza precedenti.

C’è anche il rischio di un declino dirompente del dollaro, che potrebbe indurre gli investitori ad abbandonare il debito Usa. Nel suo famoso discorso del 2002 sulla possibile deflazione in America, Bernanke rammentò la svalutazione al 40% del dollaro operata da Franklin Delano Roosevelt nel 1933-1934 per dimostrare che la politica dei tassi di cambi può essere un’arma efficace contro la deflazione.

Oggi, tuttavia, l’integrazione e l’interdipendenza economica globale sono di gran lunga più profonde rispetto agli anni 30. Il ministro del Commercio cinese, Chen Deming, ha recentemente mosse delle critiche nei confronti della politica espansiva americana asserendo che, l’emissione di dollari da parte degli Stati Uniti è fuori controllo e i prezzi delle commodity di tutto il mondo stanno continuando ad aumentare, e di conseguenza, la Cina viene attaccata da un’inflazione importata.

L’impatto della politica messa in atto dalla Fed e dell’eccessiva liquidità è stato drammatico. Nel terzo trimestre di quest’anno, le riserve in valute estere della Cina sono aumentate di 194 miliardi di dollari, un importo che supera nettamente i 66 miliardi di dollari del surplus commerciale del paese e i 23 miliardi di dollari degli afflussi di investimenti diretti esteri. Almeno parte della differenza può essere attribuita all’hot money.

Fatto ancora più importante: un dirompente declino del dollaro americano (o un apprezzamento dirompente del renminbi cinese) potrebbe essere di ostacolo non solo per la crescita della Cina, ma anche per la ripresa globale. Negli anni 90, le economie emergenti e in via di sviluppo dipendevano ancora dalla crescita del G7. Nella decade passata, come hanno dimostrato le ricerche condotte dall’Ocse, tali paesi sono diventati sempre più dipendenti dalla crescita della Cina. Qualsiasi declino nella crescita di questo paese comprometterebbe quindi, in modo significativo, la riduzione della povertà nel mondo emergente.

Durante la presidenza di George W. Bush, le politiche di sicurezza unilaterali hanno lasciato l’America senza amici. Nell’era Obama, le politiche economiche unilaterali potrebbero avere lo stesso risultato. In un’economia globale, le decisioni delle banche centrali dei maggiori paesi hanno implicazioni globali. E, in un mondo in cui il G7 non guida più la crescita globale, stampare moneta significa giocare con il fuoco.

Dan Steinbock è dirigente di ricerca di international business presso l’India, China and America Institute, e professore ospite del think tank cinese Shanghai Institutes for International Studies.

Copyright: Project Syndicate, 2010.www.project-syndicate.orgTraduzione di Simona Polverino

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